Le interviste di B&P: Prof. Stefano Paleari, ordinario di analisi dei sistemi finanziari – Università di Bergamo

Iniziamo il 2021 intervistando il Professor Stefano Paleari, Ordinario di Analisi dei Sistemi Finanziari presso l’Università di Bergamo.

Nato a Milano nel 1965, coniugato con due figli, si è laureato con lode nel 1990 in Ingegneria Nucleare presso il Politecnico di Milano.

Dal 2001 è Professore ordinario di Analisi dei Sistemi Finanziari presso l’Università di Bergamo. Nel periodo 2006-2016 è stato Direttore Scientifico di ICCSAI (International Center for Competitiveness Studies in the Aviation Industry). Dal 2009 al 2015 è stato Rettore dell’Università degli Studi di Bergamo. Dal 2013 al 2015 ha ricoperto l’incarico di Presidente del CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane). Da maggio 2017 a dicembre 2019 è stato nominato Commissario Straordinario di Alitalia, su nomina del Ministero dello Sviluppo Economico. Nel 2019 Papa Francesco lo ha nominato membro del Pontificio Consiglio della Cultura. Nel corso degli anni a ciò si aggiungono importanti incarichi presso istituzioni quali, il Max Planck Institute for the History of Science di Berlino, la CASS Business School di Londra, l’Airneth Scientific Board, lo Human Technopole.

Si tratta di un curriculum che parla da solo e quasi sicuramente qualche incarico ci sarà sfuggito.

La grande sorpresa emersa sin da subito nel corso dell’intervista, realizzata via piattaforma digitale stante il periodo di pandemia, è stata quella di trovarsi di fronte ad una persona disponibilissima, garbata nel modo di proporsi, profonda nelle risposte: lo stile proprio di coloro – oggi una rarità – che sono intelligentemente umili.

Lo ringraziamo in particolare per il tempo che ci ha dedicato in un momento per lui straordinariamente impegnativo, essendo stato nominato da pochi giorni Consigliere del Ministro per l’Università, Professoressa Maria Cristina Messa, per il coordinamento dell’aggiornamento del Recovery Plan per la ricerca e l’università.

Questa intervista è straordinariamente ricca di riflessioni e spunti troppo preziosi per essere riassunti in alcuni tratti essenziali come da nostra abitudine. Lasciando al lettore il gusto della lettura delle pagine a seguire, ci permettiamo di sottolineare quello che potrebbe essere il fil rouge sotteso a questa intervista: il non aver paura del futuro e delle novità. La vita professionale e personale del Professor Paleari ne è una conferma: quante opportunità non avrebbe colto se fosse stato timoroso? Forse tra le sue parole si potrebbe quasi leggere un invito ai giovani ad essere un po’ spericolati. Con intelligenza, ma un po’ spericolati.

È venuto così quasi spontaneo proporre come riferimento pittorico di questa intervista un’opera – idropittura su tela – dal titolo “Concetto spaziale, attese” realizzata nel 1964 da Lucio Fontana (1899-1968). Ma perché? Perché fu un artista che seppe abbandonare vecchie tradizioni alla ricerca di una nuova via: un pittore che non ebbe paura di affrontare il futuro. Una persona che diceva: “Io cercavo col colore di rompere la materia, perché quel che a me dava fastidio era la schiavitù della materia”. Il paragone con Lucio Fontana può apparire un po’ azzardato per un Professore ordinario di Analisi dei Sistemi Finanziari? Avendolo conosciuto, seppur per poco tempo, pensiamo proprio di no.

E ora spazio all’intervista.

Iniziamo questa intervista parlando di sport. Suo padre Gaudenzio è stato Presidente della società di nuoto e pallanuoto Libertas; lei ha giocato con ottimi risultati sino a 28 anni a pallanuoto con la società sportiva Sturla di Genova. Nel frattempo, si è laureato con lode in Ingegneria Nucleare presso il Politecnico di Milano. Cosa le ha insegnato la pallanuoto? Questo “mix” impegnativo di sport e di studi ha lasciato tracce nella sua vita e nel percorso formativo?

Questo “mix” mi ha insegnato in primo luogo a sopportare la fatica: la “triangolazione” tra Bergamo dove risiedevo, Genova dove giocavo, Milano dove frequentavo il Politecnico comportava un grave ed oneroso impegno. In secondo luogo, ha insegnato al ventenne che ero io allora l’importanza di sapersi organizzare e di gestire al meglio la risorsa scarsa rappresentata dal tempo. In terzo luogo, mi ha messo nelle condizioni di lavorare con gli altri: lo sport di squadra in particolare è un “grande laboratorio di interazioni umane”, dove si incontrano persone con personalità e caratteri profondamente diversi e dove ci si confronta anche con chi è più bravo di te. Infine, lo sport mi ha insegnato non tanto la vittoria, bensì la sconfitta e l’importanza di essere capaci di rialzarsi. Mi viene alla mente la mia prima partita giocata in serie A quando segnai un goal all’ultimo secondo (nella cosiddetta “zona Cesarini”, espressione mutuata dal calcio). Quel goal consentiva di terminare la partita in parità, ma fu annullato in quanto la palla era entrata in porta frazioni di secondo dopo il fischio dell’arbitro che sanciva la fine dell’incontro. La vita come lo sport è un insieme di tanti momenti e situazioni: la sconfitta non è mai per sempre ma può divenire occasione preziosa di riscatto.

Il suo curriculum mette in evidenza un aspetto peculiare e del tutto originale: lei ha ricoperto ruoli di alto livello in campo sia accademico (Rettore dell’Università degli Studi di Bergamo dal 2009 al 2015) sia manageriale (ad esempio Commissario di Alitalia nel periodo 2017-2019). Questi due percorsi professionali possono alimentarsi a vicenda? Sono del tutto differenti tra di loro o hanno dei punti in comune? Con il senno di poi li ripercorrerebbe?

Devo ammettere che il mio percorso professionale presenta una certa originalità, soprattutto nel contesto italiano. Nel mondo anglosassone è più frequente l’interazione tra incarichi accademici e manageriali, tra pubblico e privato. Per quanto mi riguarda questo percorso non è stato certamente pianificato, ma ha trovato un soggetto – il sottoscritto – che ha avuto il coraggio di dire di sì a dei cambiamenti anche profondi che si sono presentati e che mi hanno coinvolto. Senza dubbio esperienze tra di loro diverse si alimentano a vicenda e possono essere preziose, ad esempio, per gli studenti che possono raccogliere più stimoli da docenti che hanno alle spalle vissuti professionali variegati. Il “collante” che lega tra loro esperienze diversificate è quella predisposizione che potremmo chiamare “imparare a imparare”, essere in grado cioè di passare da un lavoro ad un altro non perché lo si sia già fatto anche solo in parte, ma perché si è allenati e motivati ad imparare. Al riguardo penso che l’espressione “alternanza” sia culturalmente deleteria, in quanto tendente a mettere in rigida contrapposizione attività tra di loro sì diverse ma complementari: non “scuola o lavoro” ma “scuola e lavoro”. Nel mio caso aver ricoperto ruoli assai diversi, ad esempio da un lato Rettore di una istituzione accademica dall’altro Commissario di Alitalia, mi ha permesso di conoscere e mettere a fuoco situazioni complesse e così lontane tra di loro che hanno arricchito il mio metodo di lavoro e l’approccio ai problemi. La capacità poi di affrontare situazioni complesse è indubbiamente facilitata dall’avere alle spalle una preparazione solida e diversificata: non solo competenze specifiche ma anche forte base culturale.

Rifarei il mio percorso professionale? Sì, senza dubbio, ma certamente non a scapito degli affetti personali, che tutelerei di più.

“…. il dato, il numero come fattore imprescindibile per la comprensione dei fenomeni e dei loro possibili sviluppi (pag. 11); “… l’auspicio della chiarezza che deriva dal numero (pag. 48)”; “Si parta dai numeri, quelli più rappresentativi e anche sgradevoli, e ci si ponga obiettivi numerici realizzabili (pag. 149)”: sono frasi tratte dal suo recentissimo libro, La guerra non dichiarata, edito da Francesco Brioschi Editore. Una quindicina di anni or sono l’allora Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi sottolineava il dramma dei quindicenni che rimanevano indietro in matematica rispetto ai loro coetanei europei. Ultimamente è di moda parlare in generale dell’importanza dei Big Data. Lei ritiene che oggi all’interno delle aziende italiane e delle istituzioni pubbliche ci siano una adeguata preparazione e soprattutto una cultura delle “dimensioni quantitative”? Nel caso cosa suggerirebbe?

Farei innanzitutto una distinzione tra imprese private e imprese pubbliche. Per il settore privato la cultura del dato non è solo essenziale per sopravvivere e restare sul mercato ma è un po’ la premessa per il buon governo. È come il cronometro per l’atleta che gli consente di misurare se sta migliorando o meno. Chiaramente non si deve essere schiavi dei dati e nel contempo bisogna avere a disposizione quelli giusti. Al riguardo, Albert Einstein ricordava che ci sono cose misurate che non contano e cose che contano che non sono misurate.

Nel mondo pubblico la cultura del dato è per lo più considerata come un aspetto fastidioso e impopolare, che potrebbe oscurare quel pathos che è un po’ l’anima viva della politica. I dati però sono importanti perché possono intercettare in anticipo nuove tendenze o cambiamenti e consentono di evitare di cullarsi in pericolose illusioni che generano, a loro volta, delusioni, più o meno cocenti, che intaccano quello che io chiamo il “capitale fiduciario” di una nazione o di una azienda. Vorrei infine ricordare che una cosa è il dato in sé che è nulla più che un elemento di supporto, mentre altra cosa è la cultura del dato che consente ad esempio di valutare se certe scelte o certi investimenti possono essere fatti. 

L’incertezza da diverso tempo e soprattutto a seguito di quanto successo nel 2020 (crisi pandemica e crisi economico-sociale) ci accompagna volenti o nolenti nel nostro percorso di vita personale e professionale: oggi è sempre più difficile per tutti, giovani e meno giovani, pianificare il proprio futuro. Si deve accettare e subire questa situazione oppure ci si può “attrezzare” e se sì cosa si potrebbe fare? Quali consigli darebbe soprattutto ai giovani?

La mia prima risposta è che ci si deve attrezzare ed è quindi necessaria un’adeguata preparazione. Nello sport nessuno vince senza allenamento: penso ad esempio a quanto si deve allenare un atleta che corre i cento metri, gara che si “consuma” in meno di dieci secondi. L’attrezzarsi non è però garanzia di per sé di successo, ma il non attrezzarsi è garanzia certa di sconfitta: neppure un “superdotato” può raggiungere certi traguardi se non si attrezza. L’articolo 34 della Costituzione italiana così recita al terzo capoverso: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Per essere “capaci e meritevoli” bisogna sapersi attrezzare, e ciò a sua volta presuppone quella che io chiamo “apertura mentale”, che permette di vedere nell’incertezza non una fonte di ansia ma un’opportunità. Non a caso la capacità di sopportare l’incertezza e di conviverci è forse ciò che differenzia nel profondo l’imprenditore dal manager. Ma vedere in una situazione di incertezza un’opportunità è solo per pochi eletti? Non lo penso proprio e faccio al riguardo un esempio personale. Quando mi laureai in Ingegneria Nucleare (il “Camel Trophy” del corso di laurea al Politecnico), l’Italia aveva da pochissimo deciso di abbandonare la scelta nucleare. Grazie però all’impegnativo percorso di studi, avevo acquisito una capacità di modellistica matematica che chi lavorava allora in finanza non aveva. Mi sono così avvicinato al mondo finanziario applicando modelli quantitativi che mi hanno permesso di intraprendere una carriera rapida ed accelerata che mai avrei immaginato. Questo ricordo personale conferma quello che prima dicevo: anche in momenti di incertezza ci sono opportunità. Bisogna saperle cogliere.

In occasione del Sinodo tenutosi in Vaticano dal 7 al 28 ottobre 2012 il Cardinale Donald William Wuert, Vescovo di Washington, indicava nel suo intervento quelle che secondo lui dovrebbero essere le qualità dei “nuovi evangelizzatori”: audacia e coraggio, legame con l’Istituzione (in questo caso la Chiesa Cattolica), senso dell’urgenza, gioia. Secondo lei possono in tutto o in parte essere “trasferite” ai nostri manager? Sarebbe utile aggiungerne altre?

Mi sia consentita una battuta: sante parole quelle del cardinale Wuert! Sono parole molto condivisibili che portano a riflettere su cosa vuol dire essere manager. Sono convinto che i nostri manager non conoscano l’etimologia della parola “manager”. Non è una parola inglese, bensì francese che a sua volta deriva dal latino (manu agere) e significa condurre con la mano, guidare un animale, standogli davanti. Condurre implica anche il saper convincere e ciò che non è convincente ha in sé generalmente i prodromi della futura sconfitta.

Condurre significa anche far capire all’altro che colui che lo conduce gli sta accanto. Personalmente ritengo che il manager non debba né possa essere una persona di scarsa e limitata cultura. In verità ho incontrato nel corso degli anni molti manager capaci e indubbiamente di successo, ma aridi, attenti all’“elemento pecuniario”, impegnati a fare il loro mestiere e nulla più. Non trasmettevano di certo quell’“immedesimazione” propria dell’evangelizzatore che non trasferisce solo il messaggio del Messia ma cerca di calarsi nel Messia, in ciò che è avvenuto e potrà avvenire, portando con sé i tratti distintivi della propria scelta culturale. Un suggerimento: manteniamo un profilo alto ed evitiamo la mercificazione della figura del manager.

Lei ha ricoperto e ricopre incarichi prestigiosi in diverse organizzazioni tra le quali l’Università degli Studi di Bergamo, università e centri di ricerca di matrice anglosassone, il Plank Institute for the History of Science di Berlino, l’Human Technopole di Milano, il Pontificio Consiglio della cultura. C’è un fil rouge che collega tra di loro queste esperienze? Oppure come ricorda Paul Valery ciò che arricchisce è la reciproca differenza?

Le differenze hanno secondo me un duplice aspetto: angosciano e arricchiscono. Spesso e volentieri quello che si vede prima è l’angoscia: la diversità è fastidio, è fatica, è onere. I professori che sono stati nostri maestri hanno insegnato in diverse università: oggi la mobilità dei professori universitari è ridotta ai minimi termini e con ciò abbiamo fatto loro un torto perché attraverso la mobilità ci si confronta con differenze di ambiente, di contesto, di relazioni interpersonali e ci si arricchisce. Probabilmente per vedere nelle differenze un arricchimento è necessario fare un “salto” importante: pensiamo però a quanto sarebbe noioso un mondo in cui le persone fossero indistinguibili le une dalle altre! Anni addietro tenni un discorso in occasione dell’apertura dell’anno accademico presso l’Università di Trieste e in quella occasione dissi che la città di Trieste è il confine che unisce e non quello che divide e separa. Personalmente ritengo che il confine possa divenire occasione di stimolo reciproco e che le differenze rappresentino la risposta culturale alla tecnologia. La tecnologia è standardizzazione, è paradigma dominante, è la “rete” che è uguale in Europa, Australia, negli Stati Uniti, ma non è la vita. È la pianura dove tutto è piatto e identico a sé stesso e dove non ci sono le colline e la straordinaria varietà dei colori della natura. Se ci pensiamo bene le differenze sono in fondo più naturali, più fisiologiche direi, che non l’omogeneità della pianura.

Da diversi mesi tante persone in Italia sono in grande sofferenza psicologica, sociale ed economica e tra queste gli studenti – in particolare quelli che frequentano la scuola secondaria di secondo grado e gli universitari – sono in un profondo “disagio culturale e relazionale” che temono possa pregiudicare la loro vita futura. Cosa potrebbe suggerire e consigliare? Ci potranno essere orizzonti di luce e positività?

Mi trovo molto allineato con il contenuto di questa domanda. Oggigiorno una cosa che mi preoccupa molto è la tendenza all’amplificarsi delle disuguaglianze, non tanto quelle che riguardano i “punti di arrivo” quanto piuttosto ai “punti di partenza”. Al riguardo ritengo che la classe dirigente si debba impegnare per garantire le giuste tutele, evitando così diaspore insanabili e pericolose. Come fare? Proponendo ad esempio nuovi modi di coinvolgimento dei giovani. La nostra giovane generazione, a differenza della mia e di quelle precedenti, ha la straordinaria possibilità di affrontare problemi che nessuno è stato ancora in grado di affrontare. Mi permetto di suggerire ai giovani di accantonare frustrazioni, insoddisfazioni e delusioni e di essere consapevoli che sono una generazione fortunata, sì fortunata, che ha di fronte a sé l’opportunità di cambiare i destini e gli orizzonti del mondo. Naturalmente non tutto piove dal cielo: sarà necessario, infatti, cambiare i clichés culturali a cui si è fatta l’abitudine, del tipo “crescita, solo crescita, sempre crescita”. Bisogna avere l’ambizione di cambiare rotta, superando così la gigantesca inerzia che ci circonda ed assumendo ciascuno le proprie responsabilità. Un percorso impegnativo ma ineluttabile se si vuole crescere. Non spegniamo mai – e lo dico non solo ai giovani – le “candele di opportunità accese” attorno a noi.

Confesso di essere un po’ geloso, ma è una battuta affettuosa, delle straordinarie sfide che i giovani si troveranno ad affrontare. Auguro loro tutto il successo che potranno meritarsi.