LE INTERVISTE DI B&P: DOTTOR ROBERTO GASPARI, AMMINISTRATORE DELEGATO DI ISEO

Continuiamo le nostre interviste con il dottor Roberto Gaspari.

Laureato in Economia presso l’Università Bocconi, 62 anni, dall’inizio del 2020è Amministratore Delegato della società ISEO, uno dei principali produttori di soluzioni meccaniche e digitali per il controllo e la sicurezza degli accessi, che opera con stabilimenti in Italia, Spagna, Romania, Francia e Germania e con sedi commerciali in vari paesi del mondo.

In precedenza il dottor Roberto Gaspari è stato Chief Operating Officer EMEA del Gruppo Dormakaba e prima ancora ha ricoperto incarichi di vertice in Silca e Cisa. Indubbiamente un curriculum di valore e di grande respiro internazionale.

Come già avvenuto nel corso del 2021, abbiamo realizzato l’intervista via Teams, strumento utilissimo, funzionale, per certi versi un po’ “freddino” ma “riscaldato” però dal fatto che conosciamo il dottor Roberto Gaspari da molti anni e a lui siamo legati da grande stima e apprezzamento reciproco.

Gli argomenti trattati e le riflessioni emerse sono decisamente stimolanti e lasciamo volentieri al lettore il piacere dell’approfondimento. Ciò detto, ci preme sottolineare alcuni temi di particolare interesse, quali:

  • il valore “maieutico” dell’errore;
  • l’effetto pericoloso dell’abitudine;
  • l’interazione costruttiva tra tradizione e innovazione.

Ci piace però soffermarci su di un aspetto spesso sacrificato o accantonato nelle interviste a coloro che ricoprono ruoli apicali: la presenza della famiglia e in particolare della persona che sta accanto al manager, nel caso del dottor Roberto Gaspari, della moglie.
E’ così venuto spontaneo riportare una fotografia di Henry Cartier Bresson (1908-2004), l’”occhio del secolo”, straordinario interprete dei dettagli disseminati nella vita quotidiana che così scriveva: “Le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento”. Così in questa fotografia la figura femminile si slancia con grande impegno e armonia nel saltare una pozzanghera, mentre la figura maschile, in un delicato equilibrio, le tiene la mano per darle sicurezza e solido sostegno: la fotografia potrebbe essere sottotitolata “l’unione fa la forza”.

E ora spazio all’intervista.

 

La pandemia che tanti problemi ha creato – e che ci auguriamo ci stia lasciando – ha sicuramente modificato per molti mesi abitudini, consuetudini, atteggiamenti e comportamenti organizzativi. Nel prossimo futuro cosa resterà? Secondo te cosa cambierà veramente rispetto al passato?

Vorrei declinare la risposta in funzione di due diversi orizzonti: il primo quello relativo alla struttura organizzativa, il secondo relativo al singolo individuo. Sicuramente la pandemia ha costretto di fatto le aziende alla digitalizzazione e questo genererà nel futuro diverse ricadute positive e ridurrà sprechi e inefficienze, come ad esempio evitare di dedicare una giornata di viaggio per una riunione di un’ora. A livello del singolo individuo mi pare sia emersa – e non so per quanto tempo potrà durare – una certa fragilità legata all’impatto della tecnologia digitale che genera, ad esempio, maggiore insicurezza nel gestire le relazioni interpersonali o favorisce atteggiamenti che tendono a creare una certa distanza tra le persone stesse. Mi pare anche che la gente oggi si domandi sempre più quale sia lo scopo della vita al di là del lavoro e probabilmente ricerchi un maggior e miglior bilanciamento tra qualità della vita e attività professionale, recuperando così spazi più ampi per sé stessi. Penso infine che sia necessario gestire le evidenti differenze tra coloro che, nella stessa azienda, possono usufruire dello smart working e coloro a cui ciò non è possibile. Al riguardo sarà opportuno evitare che venga a crearsi una sorta di Far West senza regole precise ed esplicite: si tratta anche in questo caso di favorire l’equità tra le persone.

“Non ho mai tollerato la vergogna del comandante che pensa prima a sé, in quanto a onori e soldi, e non si preoccupa del bene delle sue truppe… Per un uomo, e specialmente chi detiene il comando, non vi è bene più glorioso e fulgido della virtù, della giustizia, della generosità. Chi possiede queste doti è sempre circondato da amici, che sono la vera ricchezza; e innumerevoli sono le persone che aspirano alla sua amicizia”: così scriveva nel IV secolo A.C. Senofonte nell’Anabasi. Che riflessioni ti fanno venire in mente queste parole? Datate o ancora attuali?
E se sì perché?

E’ fuor di dubbio che le parole di Senofonte siano attuali: credo infatti che concetti quali integrità, senso della giustizia, equità, valorizzazione dei meriti individuali siano elementi chiave della leadership e che la leadership stessa si formi attraverso questi concetti. A mio parere un leader che non si comporta seguendo tali principi non può neppure chiedere alla organizzazione di cui fa parte di comportarsi in modo uguale. Il nostro lavoro quotidiano, oltre a quello che diciamo e facciamo da un punto di vista operativo, è anche legato a come “viviamo” quello che facciamo. Questo è il segnale che le persone “leggono” maggiormente: il comportamento contraddittorio è infatti “letto” come una grave distonia. Per questo l’esempio è fondamentale, partendo dalle piccole “cose”: da come si entra sul posto di lavoro, a come si saluta la gente, dall’espressione sorridente o accigliata con cui ci si rivolge ai propri collaboratori. Spesso si sottovaluta l’energia positiva che si trasferisce anche con il linguaggio del corpo e tutto concorre a creare “quell’armonioso clima aziendale”, che è fatto di trasparenza di comportamenti, onestà e rispetto reciproco.

“Evitare errori è un ideale meschino. Se non osiamo affrontare problemi che siano difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non ci sarà allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa grande è imparare da essi” così scriveva Karl R. Popper ne La conoscenza oggettiva. Ti ritrovi in queste parole? La tua esperienza conferma che si può imparare dagli errori? E in questo caso quale è il…segreto di questo apprendimento?

 Non penso che si possa crescere e migliorare senza percorrere strade nuove, talora incerte e rischiose: in fondo prendere delle decisioni vuol anche dire esporsi a potenziali errori. Importante è non “nascondere sotto il tappeto” l’errore che invece deve essere affrontato, gestito ed evidenziato in modo trasparente: si potrebbe dire che il “valore maieutico” dell’errore consiste in primo luogo nel dare alla persona modo di riflettere e successivamente nel porre in essere l’azione alternativa o correttiva. Si tratta in altre parole del circolo virtuoso del continuo miglioramento. Anch’io ho fatto degli errori come, ad esempio, sottovalutare la complessità di un investimento in campo informatico, non aver ascoltato abbastanza i consigli di altre persone, accelerare certi cambiamenti organizzativi senza tener nel dovuto conto l’esigenza di consolidare la situazione esistente. L’importante è rendersene poi conto e fare tesoro di quello che è successo. Qual’ è il “terreno” dove è più facile “scivolare”? Indubbiamente la gestione e la dinamica delle relazioni interpersonali che, a differenza dei problemi tecnici per i quali prima o poi si trova solitamente una soluzione, hanno svariate sfaccettature, non sono sempre stabili nel tempo, sono time consuming, assorbono cioè molta energia emotiva e tempo. Creare una squadra allineata, determinata e motivata è sempre e in ogni caso una soddisfazione unica e straordinaria!

“L’insuccesso sta nell’acquistare abitudini” così scriveva Walter Pater nell’epilogo della prima edizione dei suoi saggi, frase ripresa tra l’altro da Oscar Wilde nel De profundis. Si tratta di parole provocatorie o troppo tranchant? Oppure racchiudono in sé una verità profonda, anche se per certi versi fastidiosa? L’abitudine comporta solo rischi o addirittura pericoli oppure in certi casi può essere utile?

L’abitudine è negativa nel momento in cui diviene accettazione dello status quo. E’ ovvio che nelle aziende si alternino momenti di “tranquillità” e di dinamismo: di certo l’abitudine che si trasforma con il passare del tempo in apatica rassegnazione è fonte di errori spesso gravissimi, come dimostra la storia anche recente. Al riguardo, mi permetto di suggerire alcuni “antidoti”: ad esempio far sì che le persone ruotino in certi ruoli e possano occuparsi di attività diverse oppure favorire l’equilibrata interazione tra crescita delle persone che operano all’interno delle aziende e acquisizione dall’esterno di nuove competenze, oppure ancora, avere un atteggiamento positivo nei confronti delle novità e del cambiamento. Indubbiamente l’autoreferenzialità, spesso conseguenza dell’abitudine, porta a non chiedersi più se e come una determinata attività possa essere migliorata e ciò è spesso l’inizio di défaillances aziendali, talora catastrofiche. In sintesi: non “sedersi” mai sui risultati raggiunti, anche se brillanti, ma avere sempre viva ed accesa la tensione a migliorare.

Probabilmente una delle sfide più delicate che le aziende dovranno affrontare nei prossimi anni sarà quella di saper coniugare in modo costruttivo il passato con il futuro. Da un lato la storia, la cultura, i valori, il patrimonio consolidato di esperienze dall’altro l’effervescenza e le potenzialità delle nuove tecnologie sia quelle oggi note sia quelle ancora sconosciute. Come vedi questo confronto? E l’uomo che fine farà?

Ritengo che tradizione e tecnologia non siano alternative bensì complementari. La tradizione non è per me qualcosa di statico, non è immobilismo ma è figlia di una continua evoluzione: l’innovazione genera una evoluzione nella tradizione. Si può dire che la tradizione rappresenti una fase di quiete che segue a un momento di innovazione, alternandosi poi nel tempo. A mio avviso ci sono però due aspetti cruciali nella dinamica “tradizione/innovazione”: da un lato la variabile tempo, dall’altro la differenza tra innovazione lineare e innovazione disruptive. Quanto più l’innovazione è lineare tanto più la gestione del cambiamento che ne segue si muove in un quadro di continuità controllata; quanto più gli effetti della innovazione sono disruptive tanto più il tempo di adattamento della struttura organizzativa e delle persone impone tempi stretti e rapidità di azione. Bisogna inoltre tener presente che in momenti complessi ed incerti come quelli che stiamo attraversando le aziende non possono perdere le proprie radici, che pur si evolvono in continuazione. Tradizione ed innovazione sono realtà diverse ma ciò non comporta che non siano in grado di “colloquiare” tra di loro: il rischio che si corre altrimenti è quello di cadere in una specie di “abitudine protettiva”, che porta inevitabilmente all’insuccesso.

Guardando avanti, quali suggerimenti daresti ad un giovane che intende intraprendere una carriera nel mondo del lavoro, specialmente all’interno di una realtà manifatturiera? In particolare cosa gli diresti di evitare?

Innanzitutto suggerirei ai giovani – e i miei figli ne sono testimoni – di evitare di prendere delle “scorciatoie” come ad esempio puntare a massimizzare il più in fretta possibile riconoscimenti economici oppure privilegiare carriere veloci a scapito di percorsi formativi di sostanza anche se più lunghi. In altre parole: lavoro, impegno e “sano sudore” anche se quest’ultima espressione oggi non è di moda. Suggerirei poi di concentrarsi nel fare qualcosa che piaccia e per la quale valga la pena di impegnarsi, ricordandosi sempre quanto sia importante e insostituibile passare attraverso la cosiddetta “gavetta” e avendo l’umiltà di ascoltare gli altri, anche coloro i quali, pur avendo un limitato bagaglio scolastico, hanno però un ricco patrimonio di esperienze. Vorrei infine trasferire ai giovani una mia personale esperienza: non dimenticate mai – soprattutto in questa epoca dominata dalla tecnologia digitale e dallo smart working – l’importanza dei rapporti umani e di quanto sia importante dedicare tempo alle persone: un momento conviviale anche nella sua semplicità ha delle “ricadute” straordinarie e vale ben di più di quanto possa apparire.

Concludiamo infine l’intervista con una domanda inconsueta, spesso tralasciata nelle interviste a coloro che occupano ruoli apicali all’interno delle organizzazioni. Nel tuo percorso di crescita professionale e personale quanto hanno inciso la presenza di tua moglie, il rapporto con i tuoi figli, e più in generale le relazioni all’interno della famiglia e quanto sono state importanti per te?

Sono sposato da 35 anni, sono “pendolare settimanale” da 24 e mia moglie, magistrato, lo è stata per 5: il pendolarismo è una nota caratteristica del mio matrimonio. Questo ha comportato alcune cose: accettare alcuni sacrifici oggettivi, regolare i rapporti reciproci, ridisegnare i ruoli (il CEO di casa è senza dubbio alcuno mia moglie). Debbo riconoscere che la preziosa presenza al mio fianco di una donna forte e capace mi ha permesso di realizzare il mio percorso professionale. A lei va riconosciuta la capacità non solo di coprire con equilibrio le mie assenze ma anche di “mettere i paletti” che definiscono le varie incombenze familiari. Il rapporto con i miei tre figli è stata una costruzione diversa ed articolata, caratterizzata da una presenza fisica limitata ma di sostanza. Ci fa piacere stare assieme e godere così dei nostri momenti e non è infrequente che viaggiamo ancora in cinque. Mi auguro di essere riuscito, insieme a mia moglie, a insegnare ai figli l’etica del lavoro e del rispetto reciproco; per contro, da loro mia moglie ed io abbiamo ricevuto molto supporto e apprezzamento per il nostro compito di genitori. Sono certo che senza la mia famiglia non sarei oggi quello che sono e questa non è la frase di circostanza a conclusione dell’intervista.

Foto: Henri Cartier Bresson, Jumping