LE INTERVISTE DI B&P: PROFESSORESSA CRISTINA DELL’ACQUA, DOCENTE DI GRECO E LATINO PRESSO IL COLLEGIO SAN CARLO DI MILANO

Iniziamo le interviste dell’anno 2023 con Cristina Dell’Acqua. Coniugata, due figli, laureata in Lettere Classiche all’Università degli Studi di Milano e specializzatasi in Arts Integration ad Annapolis, insegna da diversi anni greco e latino al Collegio San Carlo di Milano. È coautrice di “Il futuro è antico. L’uso del teatro classico nell’educazione e nella formazione” e autrice di alcuni libri, quali: “Una Spa per l’anima. Come prendersi cura della vita con i classici greci e latini”, “Il nodo magico. Ulisse, Circe e i legami che rendono liberi”. Da un paio di anni collabora come editorialista con il Corriere della Sera.

La conoscenza con Cristina Dell’Acqua è di lunga data e si è consolidata da tempo in un rapporto di profonda stima reciproca, affinato dalla condivisione della lettura di alcuni autori classici, greci e latini.

Ci siamo così incontrati negli uffici della Boniardi&Partners ed abbiamo iniziato a chiacchierare seguendo la traccia suggerita delle domande in cui si articola l’intervista. Ne è così uscita un’intervista che potremmo definire realmente “fuori dal coro” (vedi l’invito a leggere e discutere anche sul luogo di lavoro alcune pagine dell’Antigone di Sofocle) e che il lettore avrà il piacere di leggere qui di seguito. Raccogliamo così ad esempio alcuni contributi originali per la loro essenzialità, come ad esempio l’importanza di:

  • soffermarsi a considerare sempre la persona in sé, prima delle sue competenze;
  • considerare la valutazione non positiva di una prestazione (ad esempio una traduzione dal greco o una iniziativa commerciale non andata a buon fine) non come un fallimento personale ma come conseguenza di una situazione momentanea;
  • vivere il lavoro di gruppo anche come “occasione di umiltà”, sapendo accettare le differenze, talora faticose, degli altri.

Cristina Dell’Acqua lavora e vive all’interno di una struttura scolastica, in una realtà quindi caratterizzata dalla “presenza” di tante domande: quelle che il docente rivolge agli alunni e quelle che questi ultimi, forse ancor più importanti, pongono all’insegnante.

È così venuto quasi immediato il riferimento ad un olio su tela, oggi custodito presso il Museum of Fine Arts di Boston, che Paul Gauguin (1848-1903) fece nel 1897, in cui l’autore si propone di rispondere alle grandi domande sull’esistenza umana: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?”, domande che sono anche il titolo stesso del dipinto. Il quadro, letto da destra verso sinistra, appare come una riflessione sull’esistenza umana, quasi un testamento spirituale. Le dodici figure simboliche sono disposte all’interno di un paesaggio magico-religioso: il primo è un bimbo abbandonato in un sonno spensierato, l’ultimo è una donna anziana che stringe tra le mani il viso. Le immagini, frutto della tecnica adottata dall’autore, si susseguono tutte in orizzontale e sembrano quasi piatte e la scelta dei blu, dei verdi e dei marroni paiono sottolineare una soffusa spiritualità. Indubbiamente un quadro complesso, come del resto si può intuire dal titolo stesso dell’opera.

Ed ora spazio all’intervista.

Quando tra amici si parla delle esperienze lavorative si ricordano alle volte i nomi di qualche capo o superiore gerarchico, qualora poi il discorso scivoli sul personale, si citano immediatamente i nomi di alcuni insegnanti. La presenza dell’insegnante ha senza dubbio un impatto significativo sui giovani in fase di sviluppo: l’autorevolezza, la passione e in certi casi il fascino del “maestro” hanno forte presa. Ai manager che si trovano di fronte una popolazione lavorativa più matura e molto variegata cosa suggerirebbe per poter arricchire il loro ruolo di maestro e di “valorizzatore” del patrimonio umano che si trovano a gestire? Quali le “trappole” in cui si può cadere?

L’esperienza mi dice che per valorizzare gli altri è buona regola partire da sé stessi, facendo riferimento a chi (o al limite anche ad una parola) sia stato importante per ciascuno. Ognuno di noi ha avuto almeno un maestro i cui insegnamenti vengono poi proiettati sugli altri. Penso che per dare il meglio di sé una persona debba essere “accompagnata culturalmente”: in azienda perché il manager, come nella scuola l’insegnante, non potrebbe condividere con i propri collaboratori letture e pensieri che sono stati importanti per lui? Questa “modalità anomala”, certamente non convenzionale, potrebbe favorire il far emergere la personalità dei singoli. Fa certamente la differenza “tirar fuori” prima la persona e poi le sue competenze ed abilità: la maieutica di Socrate è certamente un precedente confortante, lontano nei secoli ma pur sempre attuale. In questo percorso la principale trappola è la manipolazione, che può essere superata dalla “qualità intrinseca della personalità” del manager, come dell’insegnante.

“La formazione è opera di molti freni e di molti timoni” così diceva Sofocle (497 a.C.- 406 a. C.). Questa frase di straordinaria sintesi mette in evidenza come la formazione sia un percorso di grande complessità, soprattutto se lo si mette in relazione ad alcune fasi della vita di ciascuno di noi. Responsabilità del “maestro” è quella di saper “dosare” la convivenza tra freni e timoni. Lei cosa suggerirebbe al riguardo? In particolare, quali sono i rischi di “frenate troppo brusche”?

Sofocle parte da una riflessione profonda sulla relazione tra potere e obbedienza che lo porta anche a sostenere che solo chi sa obbedire sa comandare. Imparare ad obbedire vuol dire in fondo imparare a mettersi nei panni degli altri e quindi sapersi muovere con equilibrio fra freni e timoni. Chiaramente questa consapevolezza tende a crescere nel tempo con l’aumentare delle responsabilità. Se di questo tema se ne parla con grande partecipazione e passione nelle aule scolastiche perché non discuterne anche in azienda? Al riguardo, penso che il confronto tra Antigone, eroina della libertà di pensiero, e Creonte re di Tebe sostenitore del fatto che il valore di una persona dipende da quanto riesca a farsi obbedire possa essere anche in un contesto lavorativo fonte di interessanti riflessioni. Per concludere vorrei fare una breve riflessione: la mia esperienza di insegnante mi dice che non bisogna esagerare con i freni, in quanto ciò potrebbe condizionare la creatività, inibire la propensione ad esprimere idee innovative, frenare lo slancio verso riflessioni originali.

“Le capacità intellettuali di quest’uomo – il suo numeratore – erano notevoli; ma il concetto che egli aveva di sé – il suo denominatore – era così elevato che, da un pezzo, aveva superato le sue forze intellettuali”: così scriveva Lev. N. Tolstoj (1828-1910) nel libro Resurrezione. Questa “frazione di Tolstoj” mette in tutta evidenza ciò che forse è l’aspetto più delicato del processo di valutazione: il confronto tra quello che io ritengo di valere e quello che di me pensano gli altri. Il suo lavoro di insegnante la pone quotidianamente di fronte a questa “frazione”. A suo parere come si può valutare nel modo più corretto possibile? Cosa va evitato?

Parlando della valutazione – e anticipo che non ho una risposta assoluta su questo argomento – la prima parola che mi è venuta alla mente è sconfitta. Come ripeto spesso ai miei allievi la valutazione non esiste solo per valutare i successi ma anche per inquadrare in modo corretto il risultato non positivo di una prova momentanea. Oggi anche i giovani sono portati a valutare più il successo che non l’insuccesso e questo è un atteggiamento comprensibilissimo, ma a ben guardare dall’insuccesso si può imparare di più nella misura in cui ci si trova di fronte ad una persona che lo sa valutare per quello che è: il risultato di una prova andata male e non il fallimento di una persona. Nella misura in cui l’insegnante ritiene che la valutazione debba essere vissuta come sprone e come stimolo viene a cadere anche la remora ad utilizzare ad esempio dei “voti bassi”. In ogni caso i giovani fanno molta fatica ad accettare l’insuccesso e ciò significa non accettare di essere persone umane, che, come tali, possono sbagliare.

Per i suoi allievi il mondo del lavoro è un traguardo temporalmente ancora lontano. Non è facile, forse anche poco utile, chiedere loro cosa vorrebbero fare “da grandi” anche se già diversi probabilmente sembrano avere le idee chiarissime. Sarebbe però interessante capire come si immaginano il lavoro, e soprattutto, capire come concepiscono la relazione tra lavoro e vita privata, relazione che negli ultimissimi anni ha già evidenziato alcuni cambiamenti non marginali rispetto al passato. Ne avete mai parlato? Se sì, in che modo? È un tema che i suoi allievi discutono anche tra di loro?

Nella scuola in cui insegno da diversi anni si parla moltissimo di questo tema, che metterei sotto il “cappello” dell’orientamento, processo quest’ultimo che abbiamo affinato moltissimo nel corso degli ultimi anni. Agli studenti suggeriamo di non concentrarsi su cosa fare (ad esempio il mestiere, la professione), ma di chiedersi se quello che si pensa di fare è esattamente ciò che li rappresenta. Comprendo l’urgenza degli studenti di cercare di “capire il dopo”, ma non è sufficiente scegliere tout court un indirizzo universitario e fermarsi lì: è fondamentale capire perché si fa questa scelta. Con i miei allievi uso spesso la parola “vocazione” (dal latino vocatio che corrisponde al greco klesis da kaleo: chiamata, invito) che mi porta a porre la seguente domanda: perché pensi di essere al mondo? Certamente la scelta di una facoltà universitaria è ben poca cosa rispetto alla complessità e alla imprevedibilità della vita (famiglia, affetti, lavoro), ma è importante in ogni caso “partire bene”. In conclusione: un proficuo e sano orientamento al futuro non può iniziare se non con l’invito socratico a conoscere sé stessi.

“In seguito (Alessandro Magno) fu esasperato dal gran numero di accuse che, tra le vere, lasciavano spazio e credibilità anche alle false”. Così scriveva Plutarco (46/48 d.C. – 119/125 d. C.) nelle “Vite parallele – Alessandro e Cesare”: il tema delle fake news, oggi così di moda, era già stato evidenziato con moltissimi secoli di anticipo. La saggezza e la profondità di pensiero del mondo classico, a lei molto caro, possono essere ancora attuali in un mondo tecnologico sempre più veloce e “accelerato” come direbbe il sociologo tedesco Hartmut Rosa? Ci sono fatti, pensieri e figure del passato più o meno lontano che colpiscono e affascinano gli studenti?

Farò a caldo due brevi considerazioni. Innanzitutto, la tecnologia dà risposte ma non pone domande: le domande le facciamo noi. In secondo luogo, Plutarco nella sua opera straordinaria Vite parallele in cui mette a confronto due personaggi dice apertamente che a lui interessa mettere in rilievo non tanto le loro opere quanto il loro carattere, in quanto è quest’ultimo che fa la differenza. Carattere, voglia di affrontare una fatica, impegno nel superare un fallimento fanno emergere infatti i tratti profondi di una personalità. Non a caso i miei studenti amano molto Socrate che incarna l’idea dell’uomo retto e onesto che sacrifica sé stesso, come pure Antigone e Medea. I giovani si “infiammano” per le figure estreme, ma siamo noi che dobbiamo infiammarli.

Il mondo del lavoro è anche convivenza con persone che non si sono scelte: in questo la scuola è una palestra straordinaria di vita. Lo sviluppo e l’utilizzo diffuso delle tecnologie informatiche e digitali – uno degli effetti collaterali della pandemia soprattutto in Italia – hanno creato e stanno creando situazioni patologiche di “solitudine al lavoro e allo studio”. I suoi studenti cosa hanno sofferto e come stanno reagendo? Per loro quanto è importante stare assieme? L’insegnante e l’organizzazione scolastica come possono aiutarli?

Nel periodo della pandemia i giovani hanno patito molto la solitudine, l’isolamento, la mancanza di quella “vita di classe” che impone il saper lavorare in gruppo, esercizio quest’ultimo ben più impegnativo di una traduzione dal greco. In classe bisogna saper convivere, accettare gli altri, competere in modo corretto senza calpestare nessuno: nel suo “piccolo” si tratta di rispettare le norme di quella sana convivenza che dovrebbe connotare la vita in azienda. Quando i miei studenti, ma anche i miei figli, hanno avuto i primi contatti con il mondo del lavoro sono rimasti colpiti dal fatto che una delle prime skills loro richiesta fosse la capacità di lavorare in gruppo.  Vorrei infine ricordare che il lavoro di gruppo può non solo sviluppare delle straordinarie “potenzialità inespresse”, frutto di quel mix magico che fa sì che l’esprimersi del talento del singolo non lasci indietro nessuno, ma anche essere un esercizio di umiltà, come ad esempio stare assieme anche con una persona con la quale non si uscirebbe neppure a mangiare una pizza.

A studentesse e studenti che intendessero intraprendere la sua professione cosa suggerirebbe? Ritiene che le motivazioni che portarono lei a fare questa scelta siano simili a quelle di oggi? La scelta, al di là di suggerimenti, consigli, pareri vari, resta per sempre un fatto personale: si può insegnare ai giovani il “saper ascoltarsi”?

Sono molto combattuta nel dare dei suggerimenti a qualcuno che vorrebbe fare l’insegnante. Sebbene per me si tratti di un lavoro meraviglioso, non nego mai quella frustrazione sociale ed economica, che personalmente non sento ma che obiettivamente caratterizza, quantomeno in Italia, questa professione. A quegli studenti, generalmente non tanti, che sono attratti dall’insegnamento dico sempre due cose: innanzitutto dovete ascoltarvi nel profondo e in secondo luogo ricordatevi che insegnare è anche un modo per restituire quello che si è imparato e divenire “vasi comunicatori”. Prete, medico e insegnante sono tre professioni che hanno un forte contenuto vocazionale e ciò che le accomuna è quella passione di fondo, come la mia quando iniziai, e che è rimasta e come penso sarà per i miei futuri colleghi.