LE INTERVISTE DI B&P: ANDREA BORI, A.D. DI RIVA&MARIANI GROUP

Proseguiamo le interviste del 2024, incontrando presso i nostri uffici il dottor Andrea Bori, Amministratore Delegato di Riva&Mariani Group.

Classe 1967, coniugato e padre di tre figli, brillante laurea in Filosofia conseguita a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, il dottor Bori dopo aver occupato delle posizioni di crescente responsabilità nel marketing e nelle vendite all’interno di importanti aziende operanti nei settori del packaging e dei film adesivi, ha ricoperto la carica di Amministratore Delegato di Novacel Italia, divisione industriale del gruppo Chargeurs. Successivamente ha collaborato per una decina d’anni con Betafence, gruppo belga leader nel settore delle soluzioni perimetrali per proteggere persone, beni, aziende, ricoprendo posizioni apicali in Italia ed all’estero. Più recentemente è stato Direttore Generale di Imeva, società italiana affermata anche a livello internazionale nella progettazione e produzione di barriere stradali di sicurezza. Attualmente ricopre la carica di Amministratore Delegato di Riva&Mariani Group, realtà di oltre 600 persone operante con successo da molti decenni soprattutto in Italia nella coibentazione, installazione di isolamenti, realizzazione di ponteggi, bonifiche ambientali, verniciature industriali.

Abbiamo conosciuto Andrea “fresco di laurea” e di fatto l’abbiamo iniziato al mondo del lavoro nel settore del packaging: un bel salto per un giovane che aveva studiato Platone e seguito con passione i corsi del professor Giovanni Reale, autorità accademica di rilievo internazionale per quanto riguarda in particolare gli studi su Platone. Nel tempo pur vedendoci raramente per via dei suoi crescenti impegni professionali abbiamo mantenuto una relazione salda, basata su di una profonda e reciproca stima e sulla condivisione di alcuni valori di fondo.

Siamo molto grati ad Andrea della sua disponibilità a questa intervista, nonostante la sua agenda di lavoro fosse oberata da pressanti impegni di lavoro.

Come sempre ci piace anticipare alcuni contributi e riflessioni che riteniamo di particolare significato, quali:

  • l’importanza del pensiero laterale per poter esaminare ed affrontare il business in un modo diverso;
  • l’indispensabilità, non solo in azienda, del confronto aperto di idee e pareri;
  • il considerare il dubbio una preziosa opportunità e non un’inutile perdita tempo.

Come già successo nel passato anche questa volta non abbiamo utilizzato un’opera d’arte per presentare l’intervista, ma la copertina di un libro: Liside di Platone, uno dei dialoghi meno noti ma al tempo stesso l’unico che affronta un tema per noi esseri umani di assoluta rilevanza: l’amicizia. Ma perché questa scelta? I motivi sono due. In primis Liside è il testo al centro della tesi di laurea di Andrea: un bel ricordo del passato, in questo caso un passato di studi filosofici. In secondo luogo, è un invito a tutti coloro che si occupano a vario titolo di management a guardare oltre ai tradizionali e talvolta ripetitivi libri e ad aprirsi a contributi diversi anche se antichi: uno stimolo per utilizzare al meglio il pensiero laterale, di cui Andrea parlerà nel corso dell’intervista.

Buona lettura.

“Qualunque sia il vostro maestro, non deve essere per voi che un orientamento. Altrimenti sarete solo un imitatore”. Possono essere ancora attuali queste parole del pittore francese Paul Cézanne in un mondo caratterizzato dalla ricerca della flessibilità, dall’utilizzo ove possibile dello smart working, dalla crescente disaffezione nei confronti del lavoro messa in evidenza da recenti studi e articoli giornalistici? Oggi come si “apprende” e si “cresce” in azienda? E in particolare da chi (o forse da che cosa) si impara?

Se facessi un po’ un’anamnesi del mio percorso di studi devo riconoscere che ho sempre incrociato persone, e non solo insegnanti, che sono state per me dei punti di riferimento: ad esempio il professore di filosofia al liceo indubbiamente colui che mi ha orientato verso gli studi filosofici che mi interessavano più che per la materia in sé per il modus pensandi. Poi nel prosieguo degli studi ho avuto la fortuna di incontrare il professor Giovanni Reale uno dei più grandi studiosi del pensiero di Platone. Giovanni Reale è stata una delle persone che mi ha insegnato, sembra paradossale, il modo di lavorare, cioè la capacità di analizzare le tematiche e gli argomenti, di applicare i principi deduttivi e di applicare i principi di sintesi attraverso un percorso logico/interpretativo che è molto vicino all’ermeneutica, che oggi a mio parere è una delle qualità che dovrebbe caratterizzare anche la figura del manager: saper leggere quello che succede, interpretarlo, sintetizzarlo e mettere in campo le azioni necessarie. Se non si ha la fortuna di incrociare un maestro penso ci si debba sforzare per andare a cercare dei punti di riferimento, evitando al contempo i cattivi maestri, quelli che ahimè insegnano quelle cose che non si dovrebbero fare. Al riguardo, mi viene in mente l’espressione del dialetto milanese “fà ballà l’oeucc” (traduzione: guardarsi attorno con attenzione) che sottolinea, con quella straordinaria capacità di sintesi propria dei dialetti, quanto sia importante la capacità osservativa che non deve mai divenire esercizio imitativo. Qual è stato in estrema sintesi il grande insegnamento ricevuto dal professor Reale? Indubbiamente il metodo di lavoro che consente di avere una visione puntuale e più organica possibile dei processi aziendali, evitando i limiti del micro-management. Ricordo che quando stavo preparando la tesi di laurea su uno dei dialoghi minori di Platone (Liside, che tratta il tema dell’amicizia) il professor Reale mi disse: “Non mi presenti i primi due capitoli: mi faccia vedere il tutto”.

Nel tuo percorso di vita manageriale maturato in ruoli apicali all’interno di contesti organizzativi di varia natura (aziende imprenditoriali, multinazionali, fondi di Private Equity) quanto e in che modo ha “inciso” il fatto di esserti laureato in filosofia? Come sei riuscito a far convivere la sensibilità per i temi qualitativi con la necessaria attenzione per gli aspetti quantitativi?

Nel fare un bilancio del mio percorso professionale devo ammettere che gli inizi sono stati assai difficili. Ricordo che in un colloquio di selezione mi sono sentito dire: “Ma lei cosa ci fa qua?”: parole che onestamente fanno un po’ male. Ma nel mondo del lavoro di quegli anni i criteri di selezione e i profili ricercati prediligevano soprattutto percorsi di laurea in discipline tecniche o economiche, magari con l’aggiunta di un MBA. Con il tempo è cresciuta l’attenzione nei confronti di candidature “diverse” che nel loro percorso di studi hanno sviluppato in particolare l’attenzione al pensiero laterale, quella parte cioè più creativa e in parte anche razionale del nostro cervello, che, favorendo l’utilizzo al meglio dei processi logici, sviluppa la capacità di poter vedere le cose prima là dove gli altri le intravvedono. Non ci si stupisce quindi oggi di leggere sui quotidiani articoli che sottolineano l’importanza della filosofia in tema di management oppure addirittura di vedere nelle vetrine delle librerie libri che trattano di questo argomento. Certamente nel mio percorso di crescita manageriale è stato importante approfondire le tematiche relative agli aspetti economici e finanziari: nel mio mestiere è importante saper leggere bene un bilancio e non c’è più in me quell’imbarazzo che ci poteva essere molti anni or sono di fronte a espressioni quali Ebitda oppure net cash flow oggi parte integrante del mio lavoro.

Un’intervista oggi non può fare a meno di avere al suo interno una domanda sull’intelligenza artificiale, argomento quanto mai complesso, assai sfaccettato, decisamente importante se anche Papa Francesco prende voce su questo tema. Non voglio chiederti cosa sia per te l’intelligenza artificiale quanto piuttosto come pensi che l’intelligenza artificiale cambierà direttamente o indirettamente il tuo ruolo di Amministratore Delegato? Potrà modificarsi il tuo stile manageriale? E se sì, in che modo?

Penso che attualmente ne sappiamo ancora troppo poco dell’AI, in ispecie rispetto all’impatto che potrà avere sulla nostra vita. Oggi sono molto di moda seminari e convegni sull’AI, come lo furono negli anni 2000 quelli su Internet. Venendo alla domanda, la mia risposta è: sì il mio lavoro cambierà. Quanto inciderà l’AI dipenderà dal perimetro operativo, dalle caratteristiche del business, dalla tipologia di azienda. Quello che secondo me è ancora in una fase di complessità valutativa è l’impatto che l’AI avrà nell’ambito delle relazioni. Ciò che l’AI non fa è non avere sentimenti. Da poco è uscito un interessante libro (Umano, poco umano. Esercizi spirituali contro l’intelligenza artificiale) scritto da Giuseppe Girgenti, mio compagno di studi, assieme a Mauro Crippa. In questo lavoro gli autori fanno un confronto tra quanto l’AI influirà sul nostro modo di pensare e i cambiamenti che sono avvenuti nel corso della storia. Al riguardo, il primo paragone che mi viene in mente è che l’AI avrà un impatto tanto elevato quanto quello che ebbe la scrittura prima in Egitto e poi in Grecia. Certamente in futuro saremo costretti a lavorare in modo diverso: ciò che non cambierà – e mi auguro che la gente rifletta su quanto sia necessaria un’attenta regolamentazione normativa – è il fatto che l’AI non sostituirà l’identità della persona. L’AI potrà replicare la mia voce e creare di me un’immagine perfetta, ma non potrà ricreare la capacità di pensiero, che è ciò che ci contraddistingue.

Attualmente la maggior parte dei dibattiti e dei confronti televisivi (ma non solo) sono caratterizzati da una aggressività non solo verbale, da una diffusissima incapacità di ascolto, dall’utilizzo di un linguaggio spesso volgare e offensivo. A tuo parere ciò si riflette o potrà riflettersi in azienda? Ci possono essere degli “antidoti”? Le video call possono favorire un clima relazionale più collaborativo, anche se forse meno partecipato e “vissuto”?

Su questi argomenti ho idee molto chiare, che riflettono nel profondo il mio modo di pensare. Abbiamo assistito – mi sia consentita una riflessione sociologica – a partire dagli anni ‘80/’90 ad una fase in cui le figure iconiche erano quelle dei manager impositivi, spesso insopportabili ma vincenti: in altre parole, si può tollerare la maleducazione purché si sia di fronte ad una persona brava e di successo. Oggi si tollera Elon Musk con i suoi comportamenti spesso borderline e i suoi compensi stellari perché è un uomo di successo, che ha inventato qualcosa che prima non c’era. Dal punto di vista della qualità del contesto relazionale sono molto contrario ad alzare i toni. Quando in azienda nelle discussioni si scambia l’approccio dialettico, che è alla base di un sano confronto, con l’imposizione o con la sovrapposizione del pensiero penso che si entri in un circuito molto pericoloso. Ritengo che nelle aziende parecchie persone si dimettano per cercare altre opportunità perché probabilmente hanno avuto dei cattivi capi, cattivi non perché siano persone cattive ma perché inseguono quei modelli impositivi prima ricordati. In sintesi, il confronto è indispensabile, il conflitto necessario ma bisogna saperlo gestire.  

Non ho talenti speciali. Sono solo appassionatamente curioso”: così diceva Albert Einstein (1979-1955). Pensi che la curiosità, soprattutto da parte dei giovani, possa essere un “prezioso carburante” per la loro crescita professionale? La ricchezza e la potenzialità delle tecnologie comunicazionali e digitali possono alimentala in modo significativo oppure possono “affievolirla”?

La curiosità che è la base del progresso ha a mio parere un legame molto stretto con il dubbio. Infatti, la curiosità, che non è un istinto innato, nasce dal dubbio e dalla paura, anche a livello ancestrale, di andare alla ricerca di un qualcosa di diverso e che esce dalla propria confort zone. Perché ai giovani può venir meno questo stimolo? Perché gli strumenti digitali sono in grado di presentare in qualsiasi ambito situazioni già definite: non c’è più bisogno di fare particolari sforzi per fare ricerca in quanto, ad esempio, l’AI sarà in grado in un nano secondo di mettere assieme anni di ricerche che gli studiosi hanno fatto nei tempi passati. C’è però un tratto distintivo che potrebbe ridurre questa disaffezione da parte delle giovani generazioni: l’educazione al dubbio. Ritengo che nel mondo in cui viviamo fatto per lo più di certezze dobbiamo ricordarci che la curiosità è figlia del dubbio, il dubbio figlio della solitudine e che la solitudine è una delle caratteristiche dell’essere manager.

“Il dubbio non è un male, né una brutta parola. è il vostro alleato. Sarebbe sbagliato pensare che i dubbi siano qualcosa di negativo, al contrario. Possono sembrare un impedimento, forse è anche vero, ma non ci impediscono di fare, ci impediscono forse di strafare. Quindi se dovessi dare un unico consiglio di scrittura, valido anche per la vita in generale, sarebbe: amate i vostri dubbi. Considerateli un‘opportunità, un amico. I dubbi sono lì per aiutarvi, per spingervi a mettervi in discussione, per ripartire e permettervi di migliorare voi stessi sino a superare i vostri limiti”: così lo scrittore svizzero Joël Dicker (Ginevra, 1985) in un articolo pubblicato dal settimanale “La Lettura” del Corriere della Sera del 5 maggio 2024. Secondo te il dubbio ha “diritto di cittadinanza in azienda”? Oppure se lo possono permettere solamente gli scrittori e i filosofi? 

Secondo me il dubbio è un aspetto che è di fatto scomparso nell’atteggiamento manageriale. Il fatto di sentirsi sicuri e di presentare di sé un’immagine del manager “super-sicuro” quando ad esempio si presenta il proprio piano o la propria iniziativa fa dire che quel manager è una persona che non solo ha tanta self-confidence ma che è sicuro di quello che dice. L’esperienza insegna però che spesso quando si ritiene che le cose siano estremamente certe o presentate come tali è lì che si insinua magari il rischio del fallimento. Quindi il dubbio è una specie di protezione atavica: non si esce dalla caverna per paura che fuori ci sia una bestia feroce, Platone docet… Ritengo che nel gestire un business bisogna essere prudenti, insinuare il dubbio per poter avere un processo molto strutturato di controllo. Come dicevo prima il dubbio è figlio della solitudine: l’Amministratore Delegato che presenta il proprio piano industriale è colui che alla fine prende la decisione ultima, pur avendo raccolto i contributi dei collaboratori più stretti. Anni fa Sergio Marchionne, in uno degli interventi poco conosciuti rispetto a quelli che circolano ad esempio sul Web, disse che il vero leader è quello che non dorme la notte che precede la riunione con il Consiglio di Amministrazione nella quale dovrà illustrare le proprie scelte: una delle decisioni più solitarie che ci possa essere.

Nella tua duplice veste di capo azienda e di genitore hai contatti e relazioni frequenti con i giovani. Quali suggerimenti daresti loro per poter affrontare il mondo del lavoro di oggi in modo responsabile? Cosa suggeriresti di evitare? 

Ai giovani come pure ai miei tre figli dico semplicemente di cercare qualcosa che li renda felici, come è stato un po’ il leitmotiv del mio percorso di studi e di lavoro. Come si sa, spesso i genitori proiettano delle aspettative sui figli per cui si vorrebbe che fossero quello che i genitori non sono stati o che avrebbero voluto essere. Vorrei innanzitutto che i miei figli potessero avere una strada un po’ più semplice verso la felicità: ci sarà poi spazio e tempo per avere ruoli riconosciuti (ad esempio dottore o ingegnere, manager o direttore generale), evitando di vivere la frustrazione di fare un lavoro che non si è scelto. Vorrei infine sottolineare un aspetto che ritengo fondamentale nel percorso di formazione di un giovane: al riguardo mi avvarrò di due prestigiosi contributi. In primis Platone che ricorda quanto la via per la ricerca della sapienza sia faticosa. A seguire la dedica (in greco) che Werner Beierwaltes, grande amico e collega di Giovanni Reale nonché grande esperto del neoplatonismo e dell’idealismo tedesco, scrisse sulla prima pagina di un libro che mi donò: prospatho (sforzati). Concludendo, penso che nella vita non ci sia nulla che possa dare soddisfazione se prima non ci sono stati impegno e sforzo.