LE INTERVISTE DI B&P: DOTTOR MASSIMO MARGARECI, A. DELEGATO DI SERRATURE MERONI

La terza intervista di B&P del 2024 vede come protagonista il dottor Massimo Margareci, Amministratore Delegato di Serrature Meroni.

Nato a Milano nel 1963, coniugato, laurea in Giurisprudenza con tesi in Criminologia conseguita presso l’Università Statale di Milano, il dottor Margareci ha operato in ruoli sempre vicini al business e di natura prevalentemente commerciale, ricoprendo incarichi manageriali in progressiva e costante crescita all’interno di diversi settori, quali arredamento (Casakit e Natuzzi), abbigliamento (Liabel), elettronica di consumo (Serta Expert), office equipment (Olivetti Tecnost), consulenza (Logotel). Nel 2006 è entrato in Serrature Meroni, dove ricopre da anni il ruolo di Amministratore Delegato e Direttore Generale. L’azienda è leader in Italia nel settore delle serrature per mobili ed opera anche come fornitrice di soluzioni customizzate per sistemi di chiusura in svariati settori industriali. Serrature Meroni occupa un centinaio di dipendenti e sviluppa un fatturato di circa 20 milioni di Euro.

Con Massimo Margareci ci lega una conoscenza di una trentina d’anni a cui si aggiunge il fatto di aver frequentato, seppur in anni diversi, il medesimo istituto (Giuseppe Parini a Milano) dalle medie inferiori sino al liceo. Abbiamo organizzato un incontro presso gli uffici di Boniardi&Partners: un‘oretta piacevole e distensiva, ricca dei contributi che ci ha fornito il nostro ospite. Al riguardo ci piace sottolineare come nostra abitudine alcuni degli spunti emersi nel corso dell’intervista, quali:

  • il rapporto “non punitivo” con l’errore e con chi lo commette;
  • la relazione positiva e costruttiva “uomo-macchina”;
  • l’insostituibile importanza della cultura e del sapere;
  • il concetto di responsabilità diffusa.

Tradizionalmente le nostre interviste vengono “interpretate” anche attraverso il collegamento con opere d’arte (un dipinto) o simboli (un libro). In questo caso ci accompagnerà Bob Dylan, artista geniale tra le personalità più influenti del ‘900, particolarmente caro a Massimo Margareci: un leader che ha scelto la propria strada senza farsi condizionare e la cui coerenza è stata nel tempo ripagata dall’affetto di chi lo segue anche da molti anni.

Vorremmo così far precedere l’intervista dalle stesse parole di Bob Dylan:

“Ho sempre cercato di essere un individuo, uno con un suo punto di vista. Se ho provato a fare qualcosa, è probabilmente questa, a far capire a qualcuno che è possibile fare l’impossibile. E questo è tutto. Se ho mai avuto qualcosa da dire a qualcuno è questa: tu puoi fare l’impossibile. Tutto è possibile. è così. Nient’altro”.

Ed ora spazio all’intervista.

Nel 2025 Serrature Meroni compirà 80 anni. Nata nel 1945 l’azienda ha visto succedersi nel suo sviluppo diverse fasi: da un avvio imprenditoriale/familiare all’ingresso di un socio internazionale, dal ritorno in mani familiari (ricorda l’iter di Pietro Barilla) al passaggio ad un fondo di private equity, dall’acquisto nel 2014 da parte di un gruppo di lavoratori dell’azienda assieme alla terza generazione della famiglia Meroni e ad un socio thailandese sino all’attuale assetto azionario che vede la presenza di un gruppo di lavoratori e membri della famiglia Meroni. Una storia ricca e variegata, fatta di grandi successi tra cui il Pomolo PremiApri Nova del 1973 e l’UFO Van Locks del 2009 che ha visto l’ingresso di Serrature Meroni nel mercato automotive ma anche di momenti difficili e complessi. Tu sei entrato in azienda come Amministratore Delegato nel 2006 quando Serrature Meroni era parte di un fondo di private equity ed hai così vissuto da protagonista una parte significativa della storia aziendale. Quanto ha pesato il passato? Su quali leve hai agito per assicurare stabilità e crescita all’azienda? Cosa hai imparato da questa esperienza? 

Indubbiamente il passato pesa tanto, in particolare l’incrocio tra il mio passato e quello aziendale. Il mio passato è costituito sia da tutte le esperienze che mi sono portato dietro nel corso degli anni sia dai rapporti che ho avuto in particolare con i miei capi. Dai capi ho cercato di cogliere, e poi possibilmente fare miei, quei comportamenti che mi convincevano. Poi c’è l’azienda, con la propria storia, le vicissitudini e i momenti di successo, le persone che l’hanno resa importante. Quando arrivai nel 2006 in Serrature Meroni notai che sotto una certa patina polverosa e accanto a delle “incrostazioni” c’era un grande patrimonio, fatto di esperienze, competenze, valori, persone. Così non cercai di cambiare tutto ma mi impegnai a valorizzare le tante cose buone che c’erano e allo stesso tempo cercai di iniettare “sangue fresco” e idee nuove. Non si è trattato di un’operazione realizzatasi rapidamente anche perché nei processi di cambiamento non si può sempre essere veloci, ma abbiamo raggiunto in tempi ragionevoli un sano e positivo equilibrio. Bisogna sempre ricordare che il passato di un’azienda e le persone che in essa sono cresciute tendono a garantire all’azienda stessa stabilità, evitando però che questa stabilità si trasformi in immobilismo. Una cosa che negli anni è cambiata è il mio rapporto con l’errore. Prima ritenevo che io ed i miei collaboratori dovessimo fare sempre e comunque le cose giuste; oggi penso che non sia fondamentale il “numero” delle cose giuste fatte, ma il “valore” che ne deriva. Penso infine che la condanna tout court dell’errore inibisca le persone e le porti a nasconderlo, con le inevitabili negative conseguenze.

Sul Corriere della Sera di lunedì 12 agosto 2024, Francesco Gavazzi – riprendendo i dati, frutto di una indagine dell’Agenzia italiana per la gioventù realizzata tra dicembre 2023 e febbraio 2024 utilizzando un campione rappresentativo di giovani residenti in Italia, di età compresa tra i 15 e i 35 anni –  sottolineava che “ne emergono giovani donne e giovani uomini che ambiscono ad una prospettiva di carriera, ad un orizzonte stabile e di crescita che permetta loro di crearsi una famiglia, magari avere figli”. Tu ti ritrovi in queste parole? E a proposito di carriera cosa ne pensi della cosiddetta “gavetta”? A senso parlare di “gavetta” nell’epoca digitale?

Ritengo che la “gavetta” nel senso tradizionale del termine a cui si faceva riferimento anni addietro sia oggi superata dalla velocità del cambiamento. Penso però che la “gavetta” intesa come preparazione e studio continuo sia indispensabile e irrinunciabile. Certamente oggi è crescente tra i giovani il desiderio di avere un bilanciamento tra vita lavorativa e vita privata, guardando a quest’ultima con particolare attenzione, diversamente da quanto avveniva ai miei tempi. Su questo tema ho la sensazione che ci sia qualcosa da “mettere a posto”. Forse il “grande trucco” sta nel fatto che agli inizi del proprio percorso lavorativo – salvo casi eccezionali – si produce poco valore e quindi si è costretti a lavorare tanto. Iniziando poi a produrre crescente valore dovrebbe arrivare il momento in cui la persona lavori di meno o in un modo diverso. Agli inizi o si ha fortuna o la bravura di essere uno che produce sin da subito valore e allora ci si può permettere di “godere la vita”, altrimenti si sarà costretti a fare un downsizing, che genera però meno opportunità nella vita. Accontentarsi di meno o di poco oppure affermare di non aver bisogno di nulla, porta a far sì che il livello di stimoli sia in generale basso. Ma mi sentirei anche di affermare che bisogna evitare che produrre di più faccia ingolosire e crei un pericoloso crescendo senza fine.

Julio Velasco, allenatore della squadra di volley femminile, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi 2024, in un’intervista fatta da Walter Veltroni per la Gazzetta dello Sport così diceva: “Quando mi chiedono cosa caratterizza un leader io rispondo che prima di tutto deve sapere dove andare. Lo deve sapere. E saper spiegare”. E poi così proseguiva “Noi abbiamo sempre bisogno di avere autostima forte……Ma la differenza decisiva sta tra l’avere una grande autostima ed essere egocentrici. Uno può avere una grande autostima e capire però che ci sono anche altri bravi, forse più bravi di lui. Si deve essere consapevoli che nessuno, mai, è il centro del mondo. Siamo solo uno dei tanti”. Le parole di Velasco sono parole di grande saggezza: tu cosa ne pensi? Sono parole, quelle di Velasco, difficili da mettere in pratica?

Sinceramente non vedo altro modo di essere leader. Per essere leader devi sapere dove andare e poi devi sapere far venire alle persone la voglia di andare in quel posto che hai scelto. Se commetti l’errore di andare nel posto dove la maggior parte delle persone vuole andare allora non fai il leader, ma il “politicante”, cioè colui che, capito l’umore generale, fa quello che le persone si attendono. Se ben ricordo Steve Jobs diceva che se vuoi fare felici tutti non devi fare il leader ma devi vendere gelati: in altre parole, il ruolo del leader non è facile né comodo. Per mia esperienza un modo per rafforzare, anche se di poco, la propria leadership in azienda è quello di introdurre dei riti, cioè delle situazioni che si ripetono nel tempo. Ad esempio, in Serrature Meroni ho istituito l’abitudine per cui in occasione del compleanno di ciascun dipendente ci si vede con calma per bere un caffè. Dopo una (prevedibile) sorpresa iniziale, questi 15-20 minuti sono oggi un momento atteso e ciascuno sceglie di dedicare questo tempo per parlare con me di problemi di lavoro o personali. Ciò crea un contatto diretto con tutte le persone che vivono in azienda, facendo sì che la figura apicale non frequenti sempre ed unicamente un limitato numero di persone: questo “caffè” unito ad altri momenti di socialità favorisce così una sana convivenza, senza che ciò porti ad un populismo da quattro soldi. Come prima ricordavo il ruolo del leader è faticoso e molto impegnativo e risulta gratificante se ci sei riuscito. Se dovessi pensare a qualcuno che mi ha ispirato e che fa parte delle mie passioni penso a Bob Dylan, uno che per tutta la sua vita ha fatto quello che riteneva giusto fare senza farsi condizionare dalle richieste delle persone. Alla lunga tutto ciò lo ha ripagato: tutti gli appassionati di Bob Dylan lo seguirebbero qualsiasi cosa facesse, come ad esempio cantare le cover delle canzoni rese famose da Frank Sinatra.

L’archeologo Eric H. Cline che insegna Studi classici e del vicino Oriente antico e Antropologia alla George Washington University nel suo recente libro “La sopravvivenza delle civiltà” mette a confronto diverse antiche civiltà: Egizi, Ittiti, Assiri, Babilonesi, Fenici, Ciprioti, Micenei, evidenziando la loro ascesa, caduta e resilienza. Secondo questo autore la ricetta per salvarsi sta nella capacità di adattamento, imparando più dai Fenici che non dai Micenei. Quanto pensi sia importante per un’azienda essere capace di adattarsi in un contesto sempre più complesso e dinamico? Al riguardo, quanto potrà essere importante la tecnologia, soprattutto l’AI? E l’uomo? 

Noi siamo portati a pensare che qualsiasi innovazione tenderà ad appiattire le potenzialità delle persone: la realtà poi ti dimostra esattamente il contrario. All’inizio della mia carriera la gestione dell’informazione era potere: io so delle cose e non le rivelo agli altri. Passa del tempo e ci si rende conto che il problema non è tanto quello di disporre delle informazioni quanto piuttosto l’utilizzo che se ne può fare. Oggi le informazioni sono disponibili, come accade ad esempio in Serrature Meroni: la loro importanza consiste nel cosa si può fare con quelle informazioni messe a disposizione. Lo stesso vale con l’automazione e ne sono certo anche con l’AI. Faccio una breve digressione, anticipando un po’ i riferimenti contenuti nella domanda a seguire, legata ad un’altra mia passione: il gioco degli scacchi. Nei primi tempi l’uomo era più forte del computer, poi il computer superò l’uomo e lo sconfisse. Successivamente l’uomo con a fianco il computer sconfisse la macchina. Oggi in certi tornei a livello sperimentale si confrontano giocatori (spesso anche grandi maestri) ciascuno dei quali si avvale del computer: a quest’ultimo il compito di fare rapidamente i calcoli, all’uomo la strategia della partita.

Questa domanda è legata al mondo degli scacchi, tua passione di lunga data assieme ai viaggi. Poco prima di suicidarsi Stefan Zweig (1881-1942) scrisse “La novella degli scacchi”, opera che ha sempre suscitato numerosi spunti di riflessione e commenti. Uno dei principali personaggi di questo libro è Mirko Czentovic, uomo rozzo e ignorante ma anche campione mondiale indiscusso di scacchi, che incarna la figura dello specialista che eccelle nel suo campo ma che per il resto fa sfoggio di una disarmante ignoranza e mancanza di cultura. Competenza e specializzazione sono concetti sempre più tra di loro collegati in particolare negli attuali contesti lavorativi, caratterizzati da una continua accelerazione tecnologico-sociale. Cosa significa oggi essere “specialista”? Quali possono essere da un lato gli aspetti positivi e dall’altro le potenziali criticità? Ci può essere specializzazione senza cultura?

Nel rispondere a questa domanda mi rifarei innanzitutto alle espressioni tradizionali di generalista e specialista. Penso che ciascuno all’inizio della propria carriera lavorativa debba chiarire a sé stesso la strada che, in linea di massima, intende intraprendere. Il ruolo di specialista può essere assai gratificante perché nasce dalla tua passione, ti consente di andare in profondità quanto vuoi, ti fa talora divertire parecchio. Però se non hai un po’ di visione generale e di conoscenza di ciò che ti sta attorno corri il rischio di essere percepito dagli altri come una figura un po’ ostica perché vedi unicamente il tuo punto di vista. Inoltre, si corre il rischio di divenire uno “specialista-strumento”: uno “specialista-oggetto” anziché uno “specialista-soggetto”. La scrittrice poetessa Sibilla Aleramo diceva che ciò che non conosci non lo ami e ciò che non ami ti rimane distante. Io penso che concentrandosi tantissimo su di una cosa e non ci si “allarghi” a capire il contesto che sta attorno e così ci si impoverisca. Mi vengono alla mente, ad esempio, gli chef stellati che non sono solo profondi conoscitori della loro materia ma sono anche persone curiose e aperte al confronto con altri saperi. Su di un aspetto sono moto drastico, e così vado a concludere: senza cultura non si va da nessuna parte.

Anni addietro Serono S.A. – multinazionale svizzera nata in Italia come Istituto Farmacologico Serono (oltre 4.000 dipendenti) e oggi parte del Gruppo tedesco Merck KgaA – fece un’indagine sul clima aziendale, da cui emerse che ciò che incideva maggiormente in termini positivi era in primis la qualità dei capi. Oggi si parla molto raramente della figura del capo in azienda, quasi fosse una figura superata dai rapidi e incessanti cambiamenti tecnologici, culturali e sociali. Al riguardo tu cosa ne pensi? Come sarà la figura del capo, sempre che ci sarà? 

La prima cosa che mi viene alla mente è il passaggio dal “capo controllore” (figura che secondo me ha sempre meno senso) al “capo valorizzatore di persone”. Questo passaggio passa però attraverso la difficoltà di far crescere, possibilmente in anticipo, il senso di responsabilità diffusa. La sostituzione della parola “capo” con quella di “responsabile” non ha una pura valenza semantica ma è figlia del fatto che ti sei impegnato nel far “innamorare” del concetto di responsabilità diffusa le persone che lavorano con te, che altrimenti dovrai controllare assiduamente. Se una persona è incaricata di un progetto e se ne sente responsabile non c’è bisogno di effettuare un controllo puntuale, ma di verificare i risultati raggiunti. Questo atteggiamento non è certo una cosa innata: molte persone infatti sono felici di essere sollevate dal “fardello” di farsi carico delle responsabilità. Per alcuni una umiliazione per altri un sollievo. Per parte mia ho delegato tutte le funzioni operative e mi sono tenuto la scelta delle persone che, a vari livelli, entrano in Serrature Meroni: il mio obiettivo è di individuare e scegliere le persone “giuste”, che siano cioè in assonanza con i valori e la cultura dell’azienda. Ritengo infine che non è sempre detto che il capo debba fare unicamente il capo, ma possa ricoprire altri ruoli, anche a tempo determinato, ad esempio di supporto o di consulente interno oppure ancora di mentore.

“Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”: così diceva Winston Churchill. Tu hai avuto modo di operare nel corso degli anni in aziende diverse per tipologia di business, scenari competitivi, strutture organizzative, assetti azionari: questi cambiamenti hanno influito positivamente sulla tua crescita professionale e personale? Se sì in che modo? Quali suggerimenti daresti a dei giovani? 

Ai giovani vorrei dare due suggerimenti, il primo è un po’ un “filtrato” di saggezza della mia generazione, il secondo è il frutto di una riflessione decisamente in controtendenza rispetto al passato. Abbiamo parlato in precedenza dell’importanza della cultura, della conoscenza e dell’apertura al cambiamento. A ciò vorrei aggiungere l’importanza del networking, cioè della frequentazione di persone – anche al di fuori dal contesto lavorativo – che possano aprirti a nuovi orizzonti, farti riflettere, arricchirti di nuovi saperi, emozionarti. La frequentazione di persone interessanti ti porta poi anche a fare esperienze interessanti: un circuito virtuoso che si autoalimenta, grande antidoto contro la banalità. Ai giovani dico quindi: abbiate cura del vostro patrimonio di relazioni e alimentatelo. Questo è il primo suggerimento, che non ha per nulla il falso sapore di uno snobismo classista. Il secondo suggerimento – diversamente dal vissuto della mia generazione – è di evitare l’individualismo e di abbracciare l’approccio sistemico. Quelli della mia generazione sono stati bravi ciascuno a modo suo a risolvere problemi, creare opportunità, superare ostacoli: il tutto però come risultato dell’azione del singolo individuo. La complessità e la velocità del mondo di oggi non consentono più di avere successo da soli, salvo casi eccezionali. Vorrei pertanto augurare ai giovani di affrontare il mondo del lavoro con questo approccio sistemico, che tra l’altro paga di più in termini professionali, tutela maggiormente le fasce più deboli e trasmette anche un positivo messaggio etico.

è stato utile per me aver cambiato più aziende ed aver operato in business diversi? La risposta è decisamente positiva: il cambiamento mi ha fatto crescere come manager e come persona e mi ha “irrobustito”. Alla fin fine debbo però riconoscere che le grandi dinamiche relazionali come pure quelle organizzative, sono abbastanza comuni, perché in fondo sono legate all’essere umano.