Le interviste di B&P: dottor Iginio Liberali, presidente del gruppo LU-VE

L’intervista al dottor Iginio Liberali, Presidente del Gruppo LU-VE, porta nuovi stimoli e testimonianze al nostro Angolo della riflessione.

Classe 1931, laurea in Economia e Commercio e vari corsi di formazione manageriale, il dottor Iginio Liberali ha ricoperto incarichi progressivamente importanti prima in Necchi e successivamente in Merloni Elettrodomestici, di cui è stato per diversi anni Direttore Generale al fianco di Vittorio Merloni. Nell’ottobre del 1985 Iginio Liberali fondò la società LU-VE e il 31 dicembre dello stesso anno, con l’assistenza del professor Marco Vitale, acquisì attraverso un’operazione di venture capital gli attivi della Contardo, società attiva nel campo della refrigerazione e del condizionamento industriale che, dopo anni di grande successo, era entrata in una gravissima fase di declino che la stava portando al fallimento. LU-VE (acronimo di Lucky Venture) è passata nel corso di una trentina di anni da una cifra di affari di poco inferiore a venti miliardi di lire ad un fatturato aggregato di oltre 240 milioni di Euro, con un organico di circa 1600 collaboratori e stabilimenti e filiali in Europa, Russia e Cina. Il Gruppo LU-VE è attualmente uno dei principali player internazionali del proprio settore: dal 9 luglio del 2015 è quotato all’ AIM (Alternative Investment Market), Mercato Alternativo del Capitale di Borsa Italiana.

Vorremmo anticipare sinteticamente alcuni dei principali spunti di riflessione, che emergono dall’intervista con Iginio Liberali, svoltasi ad Uboldo, sede storica ed oggi headquarter del Gruppo LU-VE.

In primo luogo emerge chiaramente l’importanza che ha la dimensione affettiva all’interno di un’azienda familiare come il gruppo LU-VE: i sentimenti nei confronti dell’azienda intesa come fabbrica, prodotti, clienti e nei confronti di tutte le persone che vi lavorano costituiscono il cuore pulsante dei profondi valori aziendali. Non a caso l’intervista è preceduta dal dipinto di Guido Reni “San Giuseppe e il Bambino Gesù”, in cui il pittore bolognese ha voluto raffigurare la profondità dei sentimenti, evidenziando l’interazione affettiva tra padre e figlio – scarsamente presente nella produzione iconografica – che si esprime attraverso gesti di curiosità, attenzione reciproca e intensi e teneri sguardi.

In secondo luogo viene sottolineato quanto sia importante nell’avvio di un’attività imprenditoriale lo sforzo non solo intellettivo ma anche organizzativo per differenziarsi dagli altri competitors, così da poter acquisire una posizione distintiva e riconoscibile all’interno dello scenario competitivo.

In terzo luogo poi colpisce che un imprenditore di indubbio successo voglia sottolineare che un’iniziativa imprenditoriale per aver successo necessiti di un certo “grado” di fame e povertà: sentirsi non arrivati, lavorare con umiltà, mantenere un certo distacco dal danaro sono alcune delle premesse per una sana ed equilibrata……… partenza.

Infine essere imprenditore è qualcosa che non si impara né viene trasmesso per via ereditaria: fa parte di un DNA che si ha o non si ha. Si può certamente affinare, ma nulla di più. Essere stato un bravo manager non è detto che debba essere il passaporto in grado di assicurare un percorso imprenditoriale di successo.

Vorremmo concludere con una nota personale. Iginio Liberali è stato vicino sin dagli inizi alla Boniardi&Partners, incoraggiando dapprima l’avvio della nostra iniziativa, dandoci preziosi suggerimenti e coinvolgendoci successivamente in importanti progetti di sviluppo organizzativo: di questo gliene saremo sempre grati.

Lasciamo ora spazio all’ intervista.

Agli inizi di aprile 2015, in un incontro con il mondo finanziario, lei disse nel suo intervento che l’azienda è fatta non solo di prodotti, clienti, impianti, tecnologie, ma soprattutto di persone, uomini e donne, che si impegnano per lo sviluppo dell’azienda. Poi aggiunse: “Però, prima ci sono i valori, che guidano la vita dell’azienda”. Fece una pausa e disse “E ancor prima dei valori ci sono i sentimenti”. Lei cosa intende per “sentimenti”, sostantivo quasi del tutto sconosciuto nella letteratura manageriale?

Le azioni dell’essere umano sono “condizionate” dai sentimenti che ciascuno di noi ha. Personalmente ritengo che nel fare impresa il sentimento sia quasi un’esigenza: di questo mi sono reso conto quando ho intrapreso in prima persona la mia carriera imprenditoriale. Ci si rende conto cioè che si vive l’impresa quasi come un atto d’amore: una “figlia” per la quale si fanno tanti sacrifici (personali, economici, verso la propria famiglia) e che deve essere allevata facendo riferimento a valori profondi. Al riguardo, rimasi colpito anni addietro dal filosofo americano Ralph Waldo Emerson (1803-1882), autore sottovalutato per parecchi anni ma ritenuto oggi una figura centrale nella cultura americana, il quale riteneva che i valori cardine della condotta umana fossero principalmente cinque: honesty, honor, hope, humility, humor. Parole non certo usuali, ma di uno straordinario significato: cinque “H” che fanno riflettere. Questa “dimensione affettiva”, coinvolgente a 36o gradi e talora quasi ossessiva, non è certo propria del manager che ha giustamente un rapporto più “razionale” con l’azienda e con le persone che operano al suo interno.

Joseph Schumpeter, il filosofo che forse più di tutti ha analizzato la funzione dell’imprenditore all’ interno del tessuto sociale, ricorda poi che colui che avvia la propria impresa tende a creare una dinastia e ciò lo porta a guardare l’azienda in una prospettiva di lungo periodo: una specie di atto d’amore che si protende nel tempo, che – se ben radicato e condiviso – dovrà essere gestito dalle generazioni che subentreranno alla guida dell’azienda.

Due concetti le sono cari: “Puntare al better e non al cheaper” “Lavorare sul value piuttosto che sul cost”. Dove traggono origine questi concetti che l’hanno guidata soprattutto nella sua attività imprenditoriale? Sono “frutto” della sue esperienze e/o di contributi concettuali provenienti dalle scuole di management? O sono anche legati al suo modo di intendere e vivere il ruolo imprenditoriale?

Penso che i due concetti citati siano una specie di “frutto composito”: esperienze, studi, confronti, senza dimenticare quello che una persona ha ricevuto nella sua vita. Mio padre – persona semplice e modesta – mi diceva: “Non stare nel gregge, cerca di tirarti fuori dal mazzo e di fare un po’ meglio di quello che fanno gli altri”. Ho fatto mio proprio questo insegnamento e ritengo che fare impresa sia un’esperienza gratificante se si cerca di fare un quid in più rispetto agli altri e che il successo di un progetto imprenditoriale sia connesso alla diversità: potrei direi “try to be different”. Chiaramente non bisogna fermarsi alle parole: il vero problema sta nel trasferire nei fatti e nel valorizzare questo concetto. In questi giorni sto mettendo a punto un nuovo slogan per il Gruppo LU-VE: “Brain and values”. “Più materia grigia e meno materia prima” dico ai progettisti. “La nostra materia prima è la materia grigia” dico ai giovani che entrano in azienda. La forza del pensiero e la capacità di innovare sono le vere fonti che generano valore in azienda. Anni addietro ad un cliente sudafricano che sosteneva che un’azienda è bella se è grande ed importante, io risposi che per me l’azienda è bella se c’è qualcuno che la fa vivere, la segue, la programma, la fa crescere: in altre parole se c’è qualcuno che ha passione.

Giuseppe De Rita in un articolo pubblicato sul Corriere della sera del 3 aprile 2015 (“Cultura d’impresa. Il vuoto ai piani alti”) invitava i vertici delle aziende, dei gruppi di impresa, delle istituzioni economiche a concentrarsi sul rinnovamento della cultura organizzativa. Lei cosa suggerirebbe? Come e con che cosa si potrebbero colmare quei “vuoti” – così li chiama Giuseppe De Rita nel suo articolo – risultato di un sistema che ha decostruito le strutture manageriali più complesse senza sostituirle con altre di pari spessore?

Io non ho una risposta da studioso a questa domanda e faccio quindi alcune semplici considerazioni che sono legate alla mia esperienza. Penso innanzitutto che la cultura di impresa sia qualcosa che debba essere declinato anche in termini concreti. Ad esempio ritengo che ci siano profonde differenze tra gli obiettivi di un’impresa pubblica (attendere a finalità di natura politica e sociale), di un’azienda privata (creare valore non solo per gli azionisti) e di una realtà imprenditoriale (realizzare un sogno). Personalmente vivo l’azienda che ho creato non tanto come un qualcosa di cui sono puramente proprietario ma come una cosa che mi è data in affidamento e che come tale deve essere gestita con grande cura. Mi viene alla mente – e mi scuso se il paragone è molto impegnativo – l’espressione usata da papa Francesco nella recente enciclica Laudato si quando afferma che l’uomo deve essere amministratore responsabile del creato e non il suo padrone. Uno dei rischi che una persona può correre quando avvia un’attività imprenditoriale è quello di considerare l’azienda come una realtà che deve essere dominata in modo assoluto ed esclusivo.

La sua lunga carriera lavorativa è caratterizzata da due momenti fondamentali: il primo l’ha vista operare in qualità di manager in Necchi e poi in Merloni Elettrodomestici che lasciò dopo aver ricoperto la carica di Direttore Generale, il secondo la vede operare nel ruolo di imprenditore che sta portando in Borsa (settore AIM) un’azienda di successo ma dal passato travagliato sebbene prestigioso. Qual’ è il fil rouge che lega questi due momenti? Come ha vissuto questo percorso? Quali insegnamenti ha ricevuto?

Io ho avuto la fortuna di lavorare in due aziende di grandi tradizioni e nel contempo profondamente diverse. Sono così passato da una realtà (Necchi) seria, rigorosa, ma abbastanza provinciale e un po’ cristallizzata sebbene rinvigorita dall’arrivo di alcuni manager provenienti dalla Olivetti, ad una azienda effervescente, dinamica, guidata da un imprenditore (Vittorio Merloni) che voleva realizzare un progetto di impresa di successo, orientata allo sviluppo internazionale, per la quale bisognava essere anche capaci di rischiare pur di raggiungere obiettivi ambiziosi e prestigiosi. Accanto a Vittorio Merloni ho così visto da vicino cosa volesse dire fare l’imprenditore: stare accanto a lui mi ha, per così dire, “aperto la testa”. Incoraggiato poi dal professor Marco Vitale a cogliere occasioni imprenditoriali, ho fondato nell’ottobre del 1985 la società LU-VE che ha rilevato il 31 dicembre dello stesso anno gli attivi della Contardo, azienda dalla storia e dal marchio prestigiosi ma andata progressivamente in crisi sino al fallimento. La nascita di LU-VE ha così costituito l’avvio di un percorso imprenditoriale di grande impegno e di altrettanta soddisfazione. Nella mia vita professionale, che si è sviluppata nell’arco di diversi decenni, ho imparato però una cosa importate. Le esperienze vissute da “comprimario” anche se ad alto livello sono sì importanti, ma se non si ha in sé la “scintilla” non è in grado di fare l’imprenditore. Penso che il DNA dell’imprenditore non si acquisisca: si può affinare, ma bisogna avercelo dentro.

Ci pare che la sua ricca esperienza comprenda anche due altri momenti che si potrebbero definire di matrice più istituzionale: la successione generazionale e la quotazione in Borsa della sua azienda. In merito al primo argomento, Lei ha già intrapreso il percorso che ha portato suo figlio Matteo alla guida del Gruppo LU-VE. Quali sono stati i passaggi e i momenti più delicati di questo processo? A suo giudizio e con la sua esperienza quali sono le “cose” da evitare e quelle invece da seguire?

Avendo tre figli maschi, ho cercato di creare delle opportunità per ciascuno, lasciandoli però liberi di fare le loro scelte, tranne che per Matteo a cui ho suggerito un “dirottamento” dagli studi storici alla frequentazione degli studi economici: il destino poi fece la sua parte. Matteo andò con alcuni amici a sostenere l’esame di ammissione alla università Bocconi e fu l’unico ad essere ammesso: oggi è l’Amministratore Delegato del Gruppo LU-VE. Il passaggio generazionale è sicuramente un momento complesso per l’azienda. Se mi è permesso un paragone è come quando un padre ha una figlia bella e intelligente che va in sposa ad un bravo giovane: scatta un meccanismo di “affettuosa gelosia”, che deve però essere superato per assicurare continuità. Il passaggio generazionale impone anche, volenti o nolenti, una specie di sacrificio psicologico: accettare che nell’azienda che il fondatore ha creato vi sia spazio per un certo grado di diversità ad esempio nei processi decisionali, sempre però nella condivisione dei valori fondanti. Sicuramente questi momenti, talora caratterizzati da fasi di confronto anche teso, possono essere superati positivamente se le parti coinvolte hanno tra di loro un profondo rapporto affettivo. Ritengo che ogni successione generazionale abbia la sua storia: ci possono essere alcuni “accorgimenti” ed attenzioni che possono essere generalizzati, ma non mi pare siano praticabili “ricette” standard. Non dimentichiamo mai infine la dimensione degli affetti, che deve essere però temperata da una razionale valutazione dei valori etici e professionali di chi dovrà succedere.

Veniamo così al secondo argomento. La quotazione in borsa del Gruppo LU-VE, che forse potremmo definire la sintesi del suo percorso manageriale-imprenditoriale, passa attraverso il meccanismo della “business combination”, da lei definita in un’ intervista un “atto d’amore per l’azienda”, che in questo modo incassa tutti i soldi dell’operazione. Anche qui troviamo una parola “fuori standard” per il lessico manageriale tradizionale: amore per l’azienda. Ma come nasce e come si alimenta questa relazione “affettiva”?

Si può andare in borsa generalmente attraverso due percorsi. Il primo – l’Offerta Pubblica di Acquisto – prevede che la proprietà metta sul mercato un certo numero di azioni e che ne incassi il ricavato. Il secondo percorso – business combination – che io e tutti gli azionisti del Gruppo LU-VE abbiamo scelto ci ha portato a rinunciare ad un 24% delle nostre azioni, il cui ricavato, circa 50 milioni di Euro, è stato trasferito totalmente alle casse dell’azienda. La finalità della nostra scelta è stata quella di mettere a disposizione dell’azienda importanti e fresche risorse finanziarie per garantire un significativo piano di crescita e sviluppo. Ecco perché ho parlato di “atto d’amore” nei confronti dell’azienda.

In chiusura, una domanda classica per un imprenditore. Quale è la forza del sogno imprenditoriale? Quanto è importante sognare? Come trasformare il sogno in un progetto di successo?

Il sogno per l’imprenditore è fondamentale. Pedro Calderon de la Barca diceva “La vida es sueno”. Il sogno dell’imprenditore è un po’ più………..temperato, ma sempre sogno è. Il figlio di un imprenditore che conobbi anni addietro mi disse che suo padre passava dall’ utopia al sogno e infine alla sua realizzazione. L’impossibile può divenire possibile. Il sogno ha anche bisogno di un terreno favorevole che per me è la “fame”, l’essere un po’ “poveri”. In un recente libro Luca Ricolfi ricorda che uno dei fattori frenanti lo sviluppo di un paese è il livello di reddito: più è alto più è bassa la spinta a crescere ed innovare, così come è frenante il senso di appagamento per l’imprenditore. Il sogno deve poi avere degli “ancoraggi” forti e ben strutturati, senza però eccedere. Nella cultura manageriale indiana si suggerisce di non esagerare troppo nel far di conto e nell’ affinare continuamente il business plan, che deve essere sì uno strumento atto a orientare le decisioni ma non il cuore delle scelte aziendali. Io mi sento tutto sommato in sintonia con questa visione e le scelte che ho fatto nella mia vita imprenditoriale confortano questo modus agendi ………indiano. Vorrei infine fare un’ultima considerazione. E’ vero che l’imprenditore è 24 ore su 24 sul pezzo, ma questo impegno che può apparire ossessivo genera in fondo una sensazione piacevole: autocompiacimento e autorealizzazione si mescolano in un mix che genera uno stress positivo, quello che oggi viene chiamato “eustress”. Se non c’è una situazione di grave difficoltà, penso che la condizione motivazionale di un imprenditore sia un grande e meraviglioso privilegio.