Le interviste di B&P: Dottor Gianpaolo Naef, Group Human Resources Director Di Kedrion

Chiudiamo il 2017 con l’intervista al dottor Gianpaolo Naef, Group Human Resources Director della società farmaceutica Kedrion. E’ il primo direttore Risorse Umane che partecipa alle interviste di B&P: una bella occasione per coinvolgere una persona con la quale siamo legati da profonda stima e da un “sentire comune”.

Nato nel 1964 a Savona, coniugato, due figli, brillante laurea in Scienze Politiche (specializzazione Economia) conseguita presso l’Università di Genova, Gianpaolo inizia l’iter lavorativo prima in ABB Sae Sadelmi e successivamente nel gruppo Alstom dove ricopre i ruoli di HR Director del settore Power, di country HR Director del settore ferroviario e infine, a Parigi, di HR Director  Region Europe del settore Trasporti. Nel 2008 entra nel gruppo Ceva Logistics dove ricopre il ruolo di SEMEA Senior Vive President HR. Dopo un breve periodo in Esselunga, dal 2015 è Group HR Director di Kedrion.

Abbiamo organizzato questa intervista negli uffici milanesi di Kedrion, poco prima che Gianpaolo partisse per gli Stati Uniti. E’ stato facile intervistarlo, in quanto abbiamo avuto nel corso degli anni più di una occasione di dibattere argomenti di natura organizzativa e di sviluppo delle risorse umane: questa intervista è così una specie di “incontro istituzionale” per mettere a fuoco alcune tematiche che concordemente abbiamo ritenuto utile approfondire.

Come sempre, sintetizzare in poche righe un’intervista ricca di stimoli e riflessioni è un’operazione riduttiva che quasi mortifica l’impegno e la partecipazione dell’intervistato: lasciamo così al lettore il giusto spazio.

Ci piace però sottolineare un argomento, particolarmente caro a Gianpaolo: il mettere davanti a tutto le persone che operano all’interno dell’azienda, soprattutto i più giovani (i cosiddetti millennials), oggetto talora di critiche troppo severe e anche ingiuste. Di loro, del loro modo di affrontare il lavoro senza schemi precostituiti, della loro disponibilità di lavorare in gruppo con modalità nuove rispetto al passato, Gianpaolo ha grande rispetto. E’ venuto così spontaneo introdurre l’intervista con “Les tabliers de la rue de Rivoli” (1978), fotografia di Robert Doisneau, straordinario “pescatore di immagini” che percorse le strade di Parigi per impossessarsi di quei momenti unici e magici della vita quotidiana. In questa fotografia dei bimbi gioiosi, attraversano la strada con passo veloce, non tenendosi per mano ma ciascuno attaccato a chi gli sta davanti e formando cosi una fila lunga e compatta: il traffico si ferma quasi a voler far spazio alle nuove generazioni.

Siamo certi che questa immagine farà sorridere Gianpaolo: una forma di augurio originale per il futuro dei giovani di Kedrion.

E ora l’intervista.

Si parla molto, anche se non sempre in modo chiaro ed approfondito, di Industria 4.0. Pensi che si possa altrettanto parlare di Risorse Umane 4.0? Smart working, big data, algoritmi, diversità di genere, ne saranno temi caratterizzanti oppure ci potrà essere dell’altro? E se sì che cosa?

Ritengo che le Risorse Umane 4.0 saranno fortemente centrate su di un tema apparentemente fuori linea, cioè sulla riscoperta delle persone. Al riguardo, bisogna evidenziare due aspetti, connessi tra di loro ma ben distinti. Il primo aspetto riguarda la gestione di elementi numerici o analitici per la quale la tecnologia digitale rappresenta un indiscutibile passo in avanti. Questa straordinaria ricchezza di dati, che richiede necessariamente competenze specifiche per essere correttamente maneggiata, consentirà anche di prendere decisioni più oggettive, veloci, approfondite, mettendo all’angolo personalismi e arbitrarie strumentalizzazioni. Il secondo aspetto è rappresentato dalla spersonalizzazione. Come ricordato recentemente nell’ articolo “Loneliness and the digital workplace”, curato da Laura Amico senior editor di Harvard Business Review, si lavora sempre più da soli sia per come è strutturato lo spazio fisico sia per il predominio del rapporto individuo-computer a scapito delle dinamiche relazionali. Mi auguro proprio che le Risorse Umane 4.0 potranno riscoprire il valore del dialogo: il mio “mestiere” è in fondo quello di parlare con le persone, ascoltarle e saper lavorare con loro. La funzione delle Risorse Umane è in ultima analisi quella di essere voce ed orecchie dell’azienda: una caratteristica per certi versi datata, ma che ritengo più che mai imprescindibile.

Che in Italia potranno convivere nelle fabbriche e negli uffici ventenni e ultrasessantenni è un dato di fatto che sarà sempre più fisiologico, a meno di scenari sociali oggi inimmaginabili. Si tratta di una convivenza complessa e complicata, in quanto le aziende richiedono alle persone estrema flessibilità, grande disponibilità al cambiamento, polivalenza non particolarmente in sintonia con esperienza e seniority. In che modo pensi si potrà affrontare, gestire e non subire questo potenziale dissidio? Questo scenario potrà stimolare nuovi modelli di sviluppo organizzativo?

La tua domanda pone un tema reale, problematico e assai complesso: non è un caso che si faccia un gran parlare di aging e di politiche di convivenza tra giovani ed anziani. Al riguardo, vorrei fare alcune riflessioni e considerazioni, frutto anche dei tanti anni trascorsi ad occuparmi in particolare di sviluppo delle Risorse Umane. Innanzitutto non bisogna dimenticare che il lavoro non è tutto uguale. E’ evidente che colui che svolge un lavoro intellettuale ha pressioni legate a produttività, concentrazione, fatica, stress ben diverse, ad esempio, da un montatore meccanico. Di lavori come quello del montatore meccanico ce ne sono tanti, senza dimenticare poi anche le attività di natura amministrativa possono avere il loro livello di faticosità. Non penso che si possano fare alcuni lavori a 60 anni e oltre senza mettere in conto un trade off in termini di perdita di produttività e di calo di motivazione: nonostante il giovanilismo imperante non si può far finta di niente di fronte ad un naturale processo evolutivo biologico. Bisogna poi tener presente che il decreto Fornero (2012) ha di fatto stroncato quelle operazioni caratteristiche degli anni ’90 (i c.d. “scivoli”), che, per ridurre il costo del lavoro, consentivano forme di avvio anticipato al pensionamento e di ingresso, nei casi più virtuosi, di giovani al lavoro: un percorso forzato, ma guidato, di svecchiamento della forza lavoro. Non c’è bisogno di una bacchetta magica, ma sono convinto che l’azienda, e in primis la funzione delle Risorse Umane, possano favorire, ove ci siano le condizioni, un graduale passaggio di conoscenze tra la generazione degli anziani e quella dei giovani, ad esempio utilizzando forme di part-time. Un percorso del genere richiede chiaramente una regia puntuale che da un lato eviti un vacuo spontaneismo dall’ altro favorisca perseveranza nei comportamenti e nelle azioni messe in campo, sempre che vi sia disponibilità nel trasferire know how da parte di chi cede e impegno nell’ apprendere da parte di chi riceve. Sono convinto che uno dei compiti prioritari del mio “mestiere” sia quello di contribuire a valorizzare il patrimonio delle competenze aziendali, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di tutti.

In un recentissimo libro il sociologo francese Alain Touraine, attento “lettore” dei fenomeni sociali, supera il concetto di società “post industriale” da lui stesso coniato anni or sono, suggerendo il concetto di società “post sociale”, dove conta soltanto il singolo individuo: l’individualismo pare essere così uno dei leitmotiv della nostra società, in particolare delle generazioni più giovani. Le sfide del domani suggerirebbero di essere affrontate attraverso uno sforzo comune e condiviso e non tanto attraverso le soluzioni del singolo. A tal proposito, come dovranno essere ripensati concetti cardine come ad esempio il team working e la gestione della squadra, che ci hanno accompagnato per anni? In tutto questo la funzione Risorse Umane che ruolo giocherà?

Condivido appieno l’affermazione di Alain Touraine: come ho detto anche prima, oggi in azienda convivono tanti insiemi di individui. Mi pare che nella gestione delle persone si stia progressivamente passando anche in Italia dal tradizionale meccanismo di comando/controllo al sempre più diffuso utilizzo del principio di delega, teso a responsabilizzare – in un quadro di crescente complessità – il singolo nel partecipare con gli altri al raggiungimento di obiettivi comuni e condivisi. Al riguardo, nella mia esperienza i c.d. millennials hanno una fortissima propensione al lavoro di gruppo, un approccio ritenuto da loro premiante. Di fatto non è cambiata la sostanza del concetto di team working, sono cambiati i meccanismi di ingaggio emozionale tra le persone che compongono il gruppo. A tal proposito l’Organization Network Analysis (ONA) si dimostra uno strumento particolarmente utile in quanto legge le organizzazioni al di fuori del contesto gerarchico, consentendo di analizzare e rappresentare le connessioni e le interazioni reali presenti all’interno dell’azienda. Possiamo dire che l’ONA sarà la rappresentazione del lavoro di gruppo del domani. Inoltre la tecnologia oggi disponibile modifica anche il modus tradizionale di lavorare assieme, la gestione a distanza dei collaboratori, ad esempio attraverso sistemi di video conferenza. Mi è capitato recentemente di riprendere una mia collaboratrice che aveva l’abitudine di fare da contrappunto a quello che altri dicevano: in una riunione tradizionale passi pure, anzi può essere anche interpretato come modo attivo di partecipare alla discussione, ma in una conferenza telefonica così facendo si copre la voce di altri e viene meno l’efficacia della comunicazione. Alla mia osservazione la sua reazione è stata di sorpresa: non aveva affatto pensato a questo…inconveniente.

Nel suo libro “Una teoria della giustizia” il filosofo della politica statunitense John Rawls, scomparso nel 2002, sosteneva che il concetto di giustizia si identificasse sostanzialmente con il concetto di equità. Anche l’azienda può essere interpretata con un sottosistema normativo, fatto di tante norme formali e (soprattutto) informali, dove viene amministrata una forma di giustizia.  Si tratta di un tema poco studiato, ma assai reale e concreto, che presenta enormi difficoltà concettuali e pratiche, basti ricordare che Franz Kafka nel suo libro “Il processo” scrisse che “la giusta comprensione di una cosa e la incomprensione della stessa non si escludono”. Di equità, più che di giustizia, si sente parlare in azienda, soprattutto per ricordare situazioni negative di “non equità”, che incidono anche pesantemente sul clima aziendale. Pensi che si possa parlare di azienda giusta? Se sì, quali sono le sue caratteristiche?

La percezione di azienda giusta ha per me due livelli di lettura: uno generale e uno particolare. Secondo il primo l’azienda giusta è quella che si comporta secondo l’etica del business che le è proprio: Kedrion, l’azienda in cui lavoro, ha in sé un intrinseco senso di giustizia connaturato al fatto che sviluppa prodotti salvavita. Ma ciò non basta. Vi è un secondo livello: quello della coerenza. C’è infatti una dimensione nettamente percepibile all’interno e all’esterno dell’azienda, secondo cui le azioni che l’azienda pone in essere la connotano in relazione al grado di coerenza dei propri comportamenti. Ad esempio, se io dichiaro di avere rispetto per le persone e poi metto in pratica una estrema e distaccata politica di “hiring and firing”, non debbo poi stupirmi se sono visto come incoerente. Ciò vale pure per le politiche di merito e per la comunicazione interna: se privilegio la compiacenza in luogo del merito e se favorisco l’opacità alla trasparenza ben difficilmente si potrà parlare di equità aziendale. L’azienda giusta è quella che mette in pratica, nel bene e nel male, le cose che dichiara, passando attraverso la coerenza dei comportamenti, che non si identifica con una scontata gentilezza. Una cosa sono i fatti del business, un’altra i rapporti con le persone. Nella vita aziendale ci possono essere talora momenti difficili che richiedono interventi duri e severi, ma non deve mai venir meno il rispetto della persona, che, non dimentichiamolo, è al centro dell’essere azienda.

Il concetto di carriera è stato interpretato e vissuto negli anni come una specie di “continuum a crescere”.  Oggi che il periodo lavorativo si è di molto allungato e la crescita professionale si deve confrontare talora con momenti di discontinuità cosa significa e come si fa a “far carriera”?

Quando ero all’inizio della mia carriera, incontrai una persona che mi disse: “Guarda che tutto è già canonizzato. Tra i 20 ed i 30 anni devi apprendere, tra i 30 ed i 40 devi realizzare quello che hai imparato, fra i 40 ed i 50 gestisci il potere, dopo i 50 fai sostanzialmente quello che ti piace di più.” Questa schematizzazione può apparire un po’ semplicistica e non profonda, ma aiuta a mettere in luce un ragionamento e cioè che la carriera è un insieme di diversi momenti. Al riguardo, aggiungerei una nota personale: oggi questo “modello” di carriera non è più segmentabile meccanicisticamente secondo uno schema temporale, ma ogni esperienza può avere al proprio interno più fasi. Credo anche che il termine carriera, al di là delle connotazioni che può evocare in relazione ai contesti culturali in cui uno è vissuto, abbia quasi una connotazione edonistica. Fare ciò che ho la fortuna di fare e che mi appassiona non è forse una forma positiva di edonismo? Vorrei infine concludere riportando una frase che mi disse un mio caro amico napoletano: “Al di là degli alti e bassi che la vita ti può offrire, c’è una costante che devi tenere sempre ben presente: il mestiere torna sempre.” Nel mio percorso di crescita personale e professionale ho potuto “toccare con mano” che investire nel mestiere mi ha sempre ripagato, anche se talora non se ne percepisce immediatamente il ritorno.

In un mondo che tende ad andare sempre più veloce e a modificare spesso i paradigmi di riferimento, l’esperienza è un valore o un fardello? Come possono convivere il consolidamento delle conoscenze che richiede necessariamente tempo e pazienza con il turbinio delle novità offerte dal mondo digitale che impone rapidità di comprensione e reattività di comportamento?

La mia risposta sarà un po’…democristiana. L’esperienza è da un lato l’ancora propria delle situazioni di comfort, dall’altro è la molla che ti spinge nelle situazioni di cambiamento. Ogni esperienza è situazionale in quanto dipende dal contesto e dal momento storico in cui si vive: l’esperienza è quindi fardello e valore. Non bisogna poi dimenticare che quando si cambia non si cambia mai a 180 gradi: qualcosa del passato viene sempre ripresa. In Kedrion in questo momento c’è un dibattito estremamente stimolante che ruota attorno alla differenza tra sapere tecnico e sapere manageriale. L’azienda ha una cultura tecnica improntata ad un forte empirismo in quanto si lavora su prodotti biologici, dove l’uomo può intervenire nei processi e dove l’esperienza conta molto. Se ci si limita però a fare quello che si è sempre fatto si è schiavi del passato e non si cambia mai. La sfida è quindi di far convivere la ricchezza del passato con le potenzialità del futuro. Riprendo in conclusione la frase di Fritz Barth, padre del grande teologo luterano Karl, che avevi citato bevendo un caffè all’inizio dell’intervista: “L’intelligenza della storia è un dialogo ininterrotto, sempre più sincero e penetrante, tra la sapienza di ieri e la sapienza di domani.”

Nel corso degli anni hai lavorato per aziende industriali e società di servizi, in realtà multinazionali e in imprese imprenditoriali italiane, in aziende di impiantistica, farmaceutiche e nella grande distribuzione: hai quindi alle spalle un vissuto professionale ricco, particolarmente variegato ed articolato. Cosa hai ricevuto da questo puzzle professionale? Col senno di poi, lo rifaresti?

Io credo molto al concetto della sana inquietudine, che mi ha portato nel tempo a cercare delle opportunità professionali in un modo che potrebbe apparire inconsapevole o addirittura incoerente. Ho così trascorso diversi anni nel mondo dell’impiantistica all’interno di un gruppo multinazionale, passando da un ruolo prima a livello subsidiary poi a livello paese per poi finire all’estero a livello headquarter: un momento professionale di straordinaria ricchezza. Vedevo poi che un’esperienza maturata nel mondo dei servizi come un qualcosa che mi poteva arricchire e sono così entrato in un mondo con caratteristiche culturali, relazionali, organizzative, comportamentali diverse rispetto a quelle a cui ero abituato: una palestra di vita. Successivamente ho affrontato la sfida offertami dalla realtà imprenditoriale, dove si impara che è possibile coniugare con successo la visione strategica con la cura quotidiana del dettaglio: un ottimo allenamento per affrontare le emergenze e le sfide del domani. Penso che due siano stati i “drivers” di questo mio percorso: curiosità e incoscienza (in giusto …dosaggio), senza dimenticare l’importanza di avere alle spalle un solido contesto di affetti familiari. Rifarei tutto? Direi proprio di sì in quanto il valore delle esperienze fatte è straordinario. Ho avuto la fortuna di fare esperienze bellissime? Sì, ma in fondo me le sono andate a cercare. E’ ipotizzabile un puzzle ideale di esperienze? Direi di no, in quanto non ritengo che esista un percorso standard di riferimento, valido in assoluto. Sono solito paragonare il percorso lavorativo – e così vado a concludere l’intervista – alle maratone, corse a cui, da partecipante, sono legato. La maratona non si improvvisa e richiede un imprescindibile periodo di equilibrata e progressiva preparazione: non si corrono 42 chilometri e 195 metri se non si hanno alle spalle alcuni “lunghi”. Fatica e sacrificio sono anche compagni della conoscenza, che non è mai gratuita. Alcuni concetti, come vedi, restano saldi negli anni….