Le interviste di B&P: Dottor Fabio Guffanti, Direttore generale di Labotatories SVR Italia

Fabio Guffanti, nato nel 1972 ad Alghero, coniugato, due figlie, laurea in Economia e Commercio conseguita presso l’Università Bocconi, inizia il proprio iter lavorativo in Binda ed Autogrill, per poi approdare in Galbani, dove lavora per una decina di anni, occupandosi prevalentemente di Marketing sino a ricoprire il ruolo di Business Unit Manager Meat.

Verso la fine del 2010 entra in qualità di direttore vendite nella società cosmetica francese Alès Group, che lasciò nel 2015 come sales and marketing director. Da settembre 2016 – dopo un breve periodo in Pierre Fabre – ricopre il ruolo di direttore generale della filiale italiana del gruppo cosmetico francese Laboratoires SVR, con marchi importanti come Filorga e SVR.

Nel corso degli anni, con Fabio abbiamo avuto diverse occasioni di collaborazione e di positivo confronto su temi legati allo sviluppo organizzativo e delle risorse umane: ci fa così piacere poterlo ospitare nella nostra rubrica.

Al riguardo, anticipiamo alcuni spunti di riflessione da lui suggeriti nel corso dell’intervista.

La carriera professionale è fatta anche di momenti di discontinuità non pianificata: talora passano treni straordinari non presenti nell’elenco ferroviario, che bisogna saper cogliere al volo. Chiaramente è necessario che questa scelta non sia occasionale, frutto di emotività o di ambizioni passeggere. Il percorso lavorativo è un patrimonio prezioso da coltivare con passione, impegno e rigore etico: non è tanto un’autostrada lunga e diritta, bensì un sentiero impervio in cui spesso mancano tutte le necessarie indicazioni.

Nella cultura manageriale si sta riscoprendo l’importanza del feedback. Talora si tende a mettere in risalto soprattutto la “dimensione razionale” del feedback: ad esempio, obiettivi raggiunti, performance realizzate, efficacia nel gestire i rapporti interpersonali. Ci si dimentica di quanto sia importante manifestare gratitudine, anche in modo semplice e spontaneo, a chi lavora con noi e per noi e che spesso fa silenziosi sacrifici. Gratitudine: una parola da riscoprire in azienda e non solo.

Non si nasce direttori generali, ma lo si può diventare. Ognuno ha il suo percorso per raggiungere questa possibile meta. L’ eccellenza delle competenze è parte imprescindibile del proprio “zaino professionale”, ma le competenze sono per loro natura parziali: c’è chi proviene da ruoli commerciali, chi dal finance, chi dalle operations. Non bisogna trasformarsi in “tuttologi”, ma è necessario essere in grado di affrontare i temi da una nuova e rinnovata prospettiva. Contano indubbiamente le capacità e la motivazione del singolo, ma anche la sua capacità di ascoltare gli altri e di imparare dagli altri, di essere intelligentemente autorevole anche al fuori del proprio abituale clichè professionale, di non dare mai nulla per scontato, sapendo bene che anche il direttore generale non finisce mai di imparare.

Questa volta non abbiamo utilizzato un dipinto o una fotografia per presentare l’intervista, ma la copertina di un libro: Gratitudine di Oliver Sacks (1933-2015). Questo libro – pubblicato nel 2016 da Adelphi – raccoglie quattro articoli scritti per il New York Times e rappresentano il congedo di questo scienziato-poeta dai suoi lettori. Colpito da un male incurabile Oliver Sacks ha voluto con garbo e semplicità regalarci un inno alla vita e ricordarci che la gratitudine è la risposta ad un dono ed è sempre gratuita. Ci sono libri che bisogna meritare di leggere: questo è uno di quelli. Grazie Fabio per il tuo indiretto suggerimento.

Ed ora spazio all’intervista.

All’età di 36 anni ricoprivi la posizione di Business Unit Manager Meat in Galbani (Lactalis Group) azienda in cui hai lavorato per nove anni sempre nel marketing. Poi con l’incarico di direttore vendite sei entrato in Alès Groupe, società cosmetica francese che opera in Italia con i marchi Lierac e Phyto. Una persona dall’esterno potrebbe considerare questa scelta come un “salto mortale” o come una mossa spregiudicata oppure ancora come una forzatura pericolosa del tuo percorso professionale. Il tempo ti ha poi dato ragione e merito di questa scelta. Non ti faccio domande ma lascio spazio ad un tuo commento.

Direi che allora feci una specie di salto mortale carpiato rovesciato: cambiare cioè settore, ruolo, canali, prodotti in un momento di rapporto felice e di crescita professionale significativa in Galbani, società di dimensioni imparagonabili rispetto ad Alès Groupe. Non ero neppure nella fase di ricerca attiva di una nuova opportunità, ma il seme della curiosità per ricoprire un ruolo interessante e per me nuovo nelle vendite era attecchito. Ritenevo infatti che in un percorso di sviluppo verso posizioni apicali aziendali, fosse per me imprescindibile aver ricoperto la posizione di direttore vendite, “tassello” che ben difficilmente avrei potuto cogliere in Galbani. In questo percorso di “presa di coscienza” giocò un ruolo rilevante la persona che ricopriva allora il ruolo di direttore generale, che riteneva necessario – in un momento stagnante e non brillante per la società – un atto di rottura con il passato e con schemi tradizionali e consolidati. Seppi poi che l’Amministratore Delegato del gruppo non era poi del tutto favorevole ad una scelta così dirompente e per certi versi pericolosa, ma lasciò l’ultima parola al Direttore Generale di cui aveva un’estrema fiducia e che vide in me il potenziale, la motivazione e le competenze per realizzare questo ambizioso progetto di rilancio dell’azienda. Grande merito al Direttore Generale che prese allora un rischio ragionato, ma pur sempre un rischio, scegliendo me e che mi ha insegnato a considerare e valutare le persone in modo più aperto, libero da condizionamenti e schemi precostituiti. Il mio ingresso in Alès Groupe è stato duro, anzi durissimo sotto il profilo dell’impegno e del carico di lavoro, ma molto positivo sotto il profilo dei rapporti con colleghi e collaboratori: “insegniamoci reciprocamente”, ci si diceva. Non sarà stato un italiano perfetto, ma questo leitmotiv funzionò perfettamente. Dimenticavo: mai essere arroganti quando si entra in una nuova azienda, in particolare se sta attraversando un momento di difficoltà. L’arroganza non aiuta ad ascoltare e a capire.

Come sta cambiando il mercato in cui operi in relazione ai nuovi paradigmi digitali? Cambieranno sia le logiche del business sia l’organizzazione delle aziende? Cambieranno, e se sì in che modo, i rapporti con il Trade e con il consumatore finale?

Il dibattito è molto condizionato dalle percezioni: ad oggi i numeri dicono che circa il 10% del fatturato aggregato cosmetico passa attraverso l’e-commerce. Si tratta di un numero ancora contenuto ma se ne discute molto ed i clienti ne parlano come di una minaccia. Sebbene la direzione sia di fatto tracciata, come sta già avvenendo ad esempio nel campo dell’abbigliamento e di molti beni di consumo, il settore cosmetico gode di una sua “unicità” in quanto vive di esperienza, di emozioni e di sensorialità. Oggi è ancora frequente che una brava venditrice possa influenzare con successo l’acquisto di un determinato prodotto non tanto facendo leva sul prezzo ma soprattutto dando suggerimenti e consigli. Se ci spostiamo dal lato Trade al lato Industria ritengo che uno dei temi di maggior criticità sia attualmente (il futuro sarà probabilmente diverso) la proficua convivenza tra i manager che per motivi anagrafici non sono “nativi digitali” e coloro che invece lo sono. Al riguardo, ritengo che in futuro saranno vincenti le aziende che saranno in grado di dare risposte intelligenti e concrete a questi temi.

Nell’intervista apparsa sull’inserto del Corriere della sera La lettura del 29 aprile 2018,Il filosofo spagnolo Josep Maria Esquirol, autore del saggio “La resistenza intima” esorta al recupero di una semplicità quotidiana: manifestare gratitudine, generosità, gentilezza verso il prossimo, interessarsi, parlare di qualcosa che esuli dalla ragione puramente tecnica o commerciale dell’interazione sono antidoti per poter sopravvivere in un ambiente sociale disgregante e dominato da un’ansia crescente. Cosa ne pensi?

Ti ringrazio per questa domanda, che tocca temi a me cari: non a caso lessi l’anno scorso con molto interesse il libro “Elogio della cortesia” della psicologa Giovanna Axia. Ho la sensazione che Josep Maria Esquirol come altri percepisca che nel mondo occidentale qualcosa stia cambiando nell’alternarsi dei grandi cicli sociologici. Da anni viviamo soprattutto nelle grandi città ritmi frenetici più che veloci e nelle aziende tensione estrema per il raggiungimento dei risultati “costi quel che costi”, spesso a scapito della qualità dei rapporti umani. A ciò si aggiunge una pubblicistica che per anni ha teso ad identificare il manager di successo in colui che ha grande nerbo e determinazione assoluta nel raggiungere gli obiettivi, senza guardare in faccia a nessuno. E’ questo un modello di comportamento di riferimento per ottenere brillanti risultati aziendali? Il “cattivo carattere” è di per sé generatore di successo? Questo non è certo il mio modello: non so se è quello giusto né ho prove favorevoli a tal riguardo, ma è quello in cui io credo e che mi fa star bene. Oltre alla cortesia – parola forse mai letta in un testo di management – ed al rispetto degli altri, penso sia fondamentale, ed in ciò debbo migliorare io stesso, manifestare gratitudine verso chi lavora con me e per me. Forse per un erroneo atteggiamento “calvinista” o per evitare il rischio di far percepire un segnale di debolezza si è spesso frenati dall’ esprimere gratitudine forte e sincera, temendo in un ipotetico rilassamento della tensione lavorativa da parte di colui a cui è rivolto l’apprezzamento.

Cosa vuol dire per te essere e fare il direttore generale di una azienda? E’un privilegio o un onere: forse tutte e due? Si può essere “innovativi” nel ricoprire questo ruolo? Come può crescere professionalmente un direttore generale?

Rispondo partendo dalla tua ultima domanda. Sono nell’attuale azienda da quasi due anni dove ricopro il ruolo di Direttore Generale: un primo bilancio si può quindi trarre. Io penso di essere cambiato e di aver fatto un percorso di apprendimento che mi porta a fare tre considerazioni. In primis, quando si ricopre per la prima volta il ruolo di Direttore Generale non si può che provenire da un percorso professionale specifico e connotante: dal marketing piuttosto che dalle vendite, dalle operations piuttosto che dal finance. La guida di un’azienda vuol dire allargare l’orizzonte aziendale e affrontare tematiche che prima ci si poteva permettere di ignorare o sulle quali si tendeva talora a pontificare. In questi due anni ho imparato quanto siano fondamentali l’aiuto e la collaborazione di chi lavora con te, la creazione di un reciproco rapporto di fiducia, l’impegno costante nel saperli orientare e guidare, la disponibilità a mettersi in gioco e sapersi proporre in azienda in modo innovativo e con intelligenza anche su “terreni” professionali poco frequentati o sconosciuti. In secondo luogo sarà gratificante e piacevole fare il Direttore Generale, ma quanto è faticoso e quanto pesa la solitudine! Indubbiamente quanto più si può contare su di una squadra forte coesa tanto più si sopportano fatica e solitudine: in questo caso parlerei di una fatica e di una solitudine fisiologiche e per un certo verso “sane”, che ti aiutano nel prendere le decisioni. Ma le decisioni dure e difficili si prendono sempre da soli: è così da sempre. Per ricoprire infine il ruolo di Direttore Generale è imprescindibile la capacità di sapersi concentrare. Al riguardo, mi viene in mente una recente intervista fatta a Vittorio Colao in cui l’intervistato riteneva che fosse proprio dei manager che ricoprono posizioni apicali curare in modo rigoroso la propria forma fisica e mentale, premessa per essere concentrati nel prendere le decisioni che coinvolgono spesso molte persone e nei confronti delle quali bisogna assumere coscientemente pesanti responsabilità.

In un recente saggio l’economista italiana Mariana Mazzucato, docente allo University College of London, ritiene necessario distinguere tra aziende che “creano” ricchezze da quelle che si limitano ad “estrarle”. Secondo te, in un mondo così sfaccettato e instabile come quello attuale, si tratta di una distinzione corretta o è troppo “manichea”?

Trovo interessante lo spunto, ma mi pare eccessivamente schematico e rigido. La vita di una azienda passa attraverso varie fasi storiche anche molto diverse tra di loro. Ad esempio cambiano il contesto sociale o le logiche del business e l’azienda – come ricorda il libro Strategy Blue Ocean – può ritagliarsi delle opportunità di sviluppo creando valore. Passano alcuni anni (oggi sempre meno), cambia lo scenario competitivo e la stessa azienda deve mettersi in una posizione difensiva. Se ciò vale per il business, vale anche per l’organizzazione: non c’è un modello valido per tutte le stagioni. Ci sono manager che prefigurano un contesto esterno ostile con l’obiettivo di serrare i ranghi in momenti di forte tensione: nulla da obiettare ma questa situazione non si può protrarre nel lungo periodo in quanto le persone non riescono a gestire a lungo tensioni così estreme. Sebbene non sia un velista, mi viene da dire che colui che guida un’azienda mi ricorda la figura dello skipper: il vento c’è per tutti e nessuno può deciderne la forza, l’intensità e la sua evoluzione. Lo skipper bravo è colui che mette la barca (leggi azienda) nella direzione giusta e la sa portare in porto, vincente.

Tu hai lavorato con aziende italiane (Binda, Autogrill, Galbani) e con aziende cosmetiche internazionali, francesi in particolare. A tuo parere quali sono i tratti caratteristici delle aziende francesi? Quali sono le grandi differenze con le aziende italiane? 

Ci sono indubbiamente alcune differenze e ciò è stato per me anche occasione di crescita professionale. Personalmente ho sempre avuto simpatia per la Francia e ne apprezzo la cultura. La prima cosa che ho fatto è stato imparare la lingua, non tanto perché è noto che i francesi amino parlare soprattutto la loro lingua ma perché ritenevo che parlare il francese mi agevolasse nel farmi ascoltare con maggior attenzione. Sono convinto che i francesi in generale siano più aperti nei confronti degli italiani di quanto si creda: il “guaio” è che non sono capaci di trasmetterlo correttamente. Apprezzano molti aspetti della nostra cultura, il nostro stile di vita, la capacità di risolvere i problemi e trovare soluzioni al di fuori di schemi tradizionali, il valutare i problemi da angolature diverse, la forza dell’individualità. Per contro i francesi tendono ad essere cartesiani, analitici, razionali, schematici: la loro forza è il sistema non il singolo individuo. Sono anche molto rigorosi: le scadenze sono le scadenze ed i format sono i format. Assieme possiamo lavorare bene, se siamo capaci di valorizzare le differenze reciproche. Ad esempio nel mondo del lusso le aziende francesi, che occupano importanti posizioni di leadership a livello mondiale, tendono a confermare ove possibile il management locale a cui danno ampia autonomia: da parte loro solidità finanziaria e capacità organizzativa. Siamo diversi, ma non dissimili.

“Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”. Ti ritrovi in queste parole di Karl Popper? Che colore ha il futuro per te?

Come sempre i grandi intellettuali dicono cose solo apparentemente semplici. Leggendo le parole di Karl Popper la prima cosa che mi viene in mente sono le mie due figlie: una delle fortune di avere figli è che ti costringono a confrontarti con il futuro. La stessa cosa avviene in azienda con i giovani collaboratori: in questo caso i ruoli di padre e di manager si assomigliano un po’. In entrambi i casi convivono la tendenza ad influenzare l’altro più giovane e nel contempo la disponibilità ad accogliere nuove proposte, consci del fatto che, per riprendere le parole di Karl Popper, insieme si può costruire il futuro. Non mi considero un ottimista ad oltranza, anche se penso che oggi sia meglio di ieri e domani sarà ancor meglio. E allora il mio colore sarà l’azzurro.