Le interviste di B&P: Dottor Franco Tartaglino, Amministratore Delegato Baglioni S.p.A.

Tocca al dottor Franco Tartaglino, Amministratore Delegato di Baglioni S.p.A., inaugurare l’iter di interviste del 2019.

Nato a Asti nel 1961, laureato in Economia presso l’Università di Torino, inizia la propria carriera professionale in Olivetti, dove lavora per alcuni anni nell’area pianificazione e controllo. Successivamente entra nell’azienda fondata nel 1968 dal suocero Alfredo Baglioni, specializzata nella progettazione e produzione di serbatoi a pressione. Inizia così a lavorare in officina, dove opera una decina di operai. A distanza di cinquant’anni, Baglioni è un esempio felice dell’imprenditoria italiana: leader indiscusso nel suo settore, stabilimenti in Italia, Cina e Stati Uniti, realtà industriale in cui operano circa 1000 dipendenti. Nell’anno 2015 ci sono state l’acquisizione di una società attiva nel settore Oil&Gas e l’ingresso nel capitale sociale di IDEA Capital Funds S.G.R. S.p.A.: un percorso importante ed impegnativo.

Al dottor Tartaglino, a cui siamo legati da profonda amicizia e stima reciproca, abbiamo chiesto di dedicarci un’oretta del suo tempo e diventare così una delle “voci” di B&P. L’intervista ha avuto luogo negli uffici di Boniardi&Partners, in una soleggiata mattinata di gennaio.

Vorremmo innanzitutto spendere alcune parole sulla persona di Franco Tartaglino. E ’un imprenditore a cui non piace mettersi in mostra né apparire, una persona intelligentemente umile e concreta, che ama più la sostanza che l’astratta forma, appassionato del proprio lavoro, di letture storiche, del buon cibo, della pallavolo e del calcio. Il lettore non sarà pertanto sorpreso nel leggere le sue parole che suggeriscono ad esempio di:

  • concentrarsi su quello che è il “cuore pulsante” dell’azienda, nel caso di Baglioni l’”officina” (la fabbrica);
  • ascoltare sempre i suggerimenti e i pareri dei collaboratori, indipendentemente dalla rilevanza del ruolo ricoperto in azienda:
  • essere curiosi ed imparare da tutti quelli che operano sia all’interno che all’esterno (ad esempio clienti e fornitori) dell’azienda;
  • far crescere i propri collaboratori, “calibrando” progressivamente nel tempo la fiducia loro concessa.

E’ stato quasi naturale introdurre l’intervista con una fotografia in bianco e nero di Guglielmo Chiolini (1900-1991), pavese, maestro di fotografia ma anche grande ed attento osservatore della vita quotidiana, pronto a cogliere i momenti della vita reale nella loro essenza più profonda. In questa fotografia, ambientata all’interno della fonderia Necchi negli anni ’30, si stagliano in primo piano le figure di tre operai impegnati in un duro e faticoso lavoro, svolto con impegno, forza e precisione.  Un quarto operaio, un po’ defilato, sembra prendere un momento di meritata pausa, però sempre vigile e presente. La fotografia pare quasi guardare con rispetto al loro lavoro e rendere omaggio alla loro professione umile ma nel contempo preziosa.

Lasciamo ora spazio all’intervista.

Hai iniziato la tua carriera in modo tradizionale: laurea in economia e commercio a Torino, assunzione in Olivetti dove, per alcuni anni, ti sei occupato di pianificazione e controllo. Poi la svolta: sei entrato nell’azienda del suocero sino a prenderne poi il suo posto al momento della sua scomparsa. Due percorsi diversi che si sono incrociati: quali riflessioni e sentimenti si sono accavallati in tutti questi anni? Rifaresti queste scelte?

Il contrasto tra Olivetti e l’azienda fondata da mio suocero è stato fortissimo: da un lato un ambiente già a quei tempi particolarmente evoluto e di respiro internazionale, dall’altro una officina di modeste dimensioni, dove ogni cosa era gestita dal titolare e dove non era ammesso sbagliare. Fu un bello choc, al punto che ci fu anche un momento in cui pensai di tornare indietro. I motivi che mi fecero restare e andare avanti in quella che poi divenne la mia “avventura” imprenditoriale furono sostanzialmente due: il fatto che non mi piace darmi per sconfitto senza aver combattuto sino in fondo e l’aggravarsi della malattia di mio suocero unita ad altri accadimenti familiari. Rifarei questo percorso professionale (grande azienda e azienda imprenditoriale)? Senz’altro. Debbo in particolare sottolineare l’importanza delle esperienze maturate in Olivetti, che da un lato mi hanno impedito sia di fare diversi errori nella gestione dei miei collaboratori, dall’altro mi hanno permesso di trasferire in Baglioni alcuni concetti organizzativi e metodologie gestionali.

Sei entrato in Baglioni in un modo che, potremmo definire “privilegiato”. Come ti sei mosso e cosa hai fatto per guadagnare e conquistare la stima e l’apprezzamento degli altri? Cosa pensi di aver dato e ricevuto?

La risposta a questa domanda è semplice ed immediata: trascorrere molto tempo in officina uscendo spesso per ultimo, cercare di imparare da tutti, anche da quelli che fanno lavori semplici, comprendere quali fossero i principali problemi che nascevano sul lavoro o nella dinamica delle relazioni interpersonali. All’inizio fu difficile per me, laureato in economia, muovermi in una realtà profondamente metalmeccanica. Al riguardo, ricordo che nel mio primo giorno di lavoro in Baglioni confusi due fili di saldatura sbagliando clamorosamente l’ordine di acquisto. Negli anni a seguire questo essere vicino alla “vita concreta” dell’azienda è stato uno dei ”segreti” del mio percorso imprenditoriale, da quando l’azienda aveva un organico di una decina di operai ad oggi che siamo in diverse centinaia.

Il subentrare a colui che ha fondato l’azienda, che tra l’altro porta anche il suo cognome, non è mai facile. C’è il rischio di copiare un modello: il più delle volte è un fallimento. Si può intraprendere una strada del tutto nuova: resta l’incertezza di poter replicare un modello di successo. Tu come ti sei comportato? Hai seguito più la ragione o l’istinto?

Inizialmente l’azienda si chiamava CM (Contenitori Metallici), un nome un po’ anonimo legato anche al fatto che mio suocero amava non apparire e restare “sotto traccia”. Fui io suggerire il cambio del nome della società in Baglioni, un atto dovuto al fondatore che era un tecnico sopraffino al punto tale che ancor oggi vengono utilizzati processi da lui ideati e messi a punto. Il vero atto coraggioso non fu, a mio parere, riconoscere il prezioso valore dell’opera del fondatore, intitolando a lui l’azienda, quanto piuttosto tenere le cose che andavano bene e modificare quelle che non avrebbero consentito alla società di evolversi e di crescere. Ragione e istinto “per me pari son”: sono due elementi profondamente diversi e nel loro profondo conflittuali, che determinano e guidano le scelte aziendali. Per come sono fatto io e per quello che fa Baglioni ritengo che conti di più la ragione, anche se ciò non evita di compiere errori.

Un aspetto fondamentale delle relazioni interpersonali è la fiducia che si può instaurare tra le persone cementando così il loro rapporto. La fiducia non si calcola in percentuale: o c’è o non c’è. Oggi, che da tempo ricopri il ruolo di imprenditore, cosa vuol dire per te “dare fiducia”? Il rapporto fiduciario è, secondo te, a una o due vie? In quest’ultimo caso come ti senti coinvolto?

Penso che il concetto fondamentale sia quello della delega: per me è importante che i miei collaboratori abbiano chiaro e ben definito il contorno in cui devono muoversi e agire di conseguenza. In generale è vero che la fiducia c’è o non c’è, ma talora è necessario che venga “calibrata” in funzione delle caratteristiche/competenze delle persone o in presenza di certe situazioni. Non si tratta però di una “fiducia a percentuale”, ma di una fiducia che deve aumentare e consolidarsi col tempo. Se si dà poca fiducia le persone non crescono più di tanto, se se ne dà troppa c’è il rischio che ci si possa far male. Compito di chi ricopre posizioni apicali è governare nel tempo questo “processo fiduciario”, in particolare quando si pretende dai propri collaboratori qualcosa in più.

“Essere adulti è essere soli” (Jean Rostand). “La solitudine spaventa un’anima di vent’anni” (Molière). Due francesi – il primo filosofo/biologo, il secondo commediografo – separati da 3 secoli -hanno detto di fatto la stessa cosa con parole differenti: la solitudine è un tratto della maturità. Al riguardo, si è soliti dire che il capo azienda è spesso un uomo solo al comando. Secondo te è poi così vero? Se sì, ci possono essere degli “antidoti”?

Mi trovo perfettamente d’accordo con Rostand e Molière: una compagnia di indubbio alto profilo. Alla fine le decisioni del capo azienda sono personali ed è giusto che sia così, anche per non campare scuse o addossare ad altri colpe o responsabilità. Il primo antidoto alla solitudine è saper ascoltare sempre il parere degli altri, vedere come ti vengono dette o riferite le cose, osservare le espressioni facciali, interpretare i messaggi. E’ importante soprattutto evitare di prevaricare gli altri: lo dico in particolare per chi è al comando. Nella mia esperienza ho toccato con mano che gli errori sono spesso frutto della fretta – che non ha nulla a che fare con la velocità – o del fatto di non aver attentamente ascoltato, aggiungerei con la giusta dose di umiltà, il parere degli altri. Resta il fatto che in ogni caso la decisione finale è propria.

Parliamo dei giovani. Tu hai tre figli e in Baglioni hai inserito con successo negli ultimi anni diversi giovani, in particolare degli ingegneri. Sviluppo delle competenze, industria 4.0, digital transformation, smart working: sono queste alcune delle vie da percorrere per crescere? Manca forse qualcosa? Cosa consiglieresti di non fare?

Tutte cose importanti quelle prima indicate, ne mancano però alcune che ritengo basilari: parlare con le persone, guardarsi negli occhi, ascoltare, essere curiosi, vedere come si svolgono i processi all’interno dell’organizzazione aziendale. Per quanto riguarda Baglioni – azienda metalmeccanica nel suo DNA – la cosa più importante è “vivere l’officina”, che è il vero cuore pulsante dell’azienda. Lo dico in particolare ai giovani laureati: il più grave errore che si può commettere in Baglioni è quello di vivere l’officina stando seduti in ufficio, attaccati alla scrivania. Le “passeggiate” all’interno dei reparti produttivi, per usare un’espressione cara a mio suocero, sono l’ingrediente che dà sapore al nostro lavoro.

Guardare al futuro è un tema strettamente legato alla natura intrinseca all’essere imprenditore. “Di questo sono sicuro. Se apriamo una lite tra il presente e il passato, rischiamo di perdere il futuro”: così diceva Winston Churchill. Ti ritrovi in queste parole?

Anche in questo caso mi ritrovo nelle parole di Winston Churchill. Ritengo che l’imprenditore debba tener conto del passato, in ispecie degli errori commessi, ma deve essere assolutamente proiettato verso il futuro, che mi spingerei a definire come “l’intelligente prosecuzione del presente”. Guardare al futuro non è solo prerogativa del vertice aziendale ma dovrebbe anche essere compito del management, ciascuno in funzione del proprio ruolo. Si può imparare a guardare al futuro? Ho forti dubbi. Può essere utile l’esempio? Talora. Penso che questa attitudine sia principalmente connessa al DNA del singolo. Concludo con un gioco di parole: il futuro, che in sé è abbastanza “lungo” è oggi sempre più “corto”. La realtà cambia così in fretta e sempre più indipendentemente da noi che è difficile delineare con sufficiente certezza un futuro di medio-lungo periodo. Questo non vuol dire limitarsi al solo rito del budget annuale – ci mancherebbe – ma saper andare oltre ed essere consci che raggiungere con successo mete ambiziose richiede di percorrere sempre più frequentemente sentieri diversi da quelli pianificati o ipotizzati.