Le interviste di B&P: Giorgio Di Crosta, Violinista
Apriamo il 2020 con il violinista Giorgio Di Crosta, la cui intervista necessita innanzitutto di una premessa.
Il 21 maggio 2017 ebbe luogo presso il Teatro alla Scala la c. d. “prova aperta” della Filarmonica della Scala diretta dal maestro Myung-Whun Chung (musiche di Carl Maria von Weber, Antonin Dvořák, Ludwig van Beethoven). Una delle caratteristiche della prova aperta consiste nel fatto che il pubblico può ascoltare – ovviamente ciò è possibile solo per coloro che sono seduti nelle primissime file – alle discussioni che possono nascere tra il maestro e i componenti l’orchestra. Al riguardo, ci fu un interessante scambio di opinioni tra il maestro e un orchestrale: argomento di natura “tecnica”, per addetti al lavoro. Nella pausa tra il primo ed il secondo tempo ci si avvicinò al palco, con il “dito alzato”, come a scuola. Un violinista con garbo e gentilezza disse: “Esco dal palco e ci vediamo di fronte al guardaroba, così vi spiego”. Questo violinista è Giorgio Di Crosta, con cui è nata una improvvisa e profonda amicizia.
Giorgio Di Crosta, nato a San Remo nel 1961, inizia a suonare il violino all’età di otto anni nella sua città natale, perfezionandosi negli anni a seguire con diversi insegnanti di fama internazionale. Nel 1978 viene scelto da Claudio Abbado come membro dell’Orchestra Giovanile Europea ECYO e da allora ha suonato con le più importanti orchestre italiane. Dal 1987 al 1992 ha ricoperto il ruolo di primo violino solista dell’orchestra “Scarlatti” di Napoli della RAI e subito dopo ha iniziato un’importante esperienza all’Opera di Stato di Vienna e con i Wiener Philharmoniker. Nel 1997 Riccardo Muti lo scelse per il ruolo di “Primo violino dei Secondi” nell’Orchestra del Teatro alla Scala, ruolo che occupa tuttora e che svolge unitamente all’attività di docente presso l’Accademia per professori d’Orchestra del Teatro alla Scala. Inoltre è primo violino dell’Ensemble Strumentale Scaligero.
Ma perché intervistare Giorgio Di Crosta? La risposta è semplice. Negli ultimi anni l’orchestra e la figura del direttore sono stati spesso oggetto di studi organizzativi, di analisi socio-psicologiche, di interviste, di trasmissioni televisive e radiofoniche. Assai raramente si è ascoltata la voce dell’orchestrale, di una persona cioè che vive dal di dentro e nelle sue più profonde sfaccettature le problematiche che nascono all’interno dell’orchestra.
Così, di ritorno da una tournée a Parigi con La Filarmonica della Scala, abbiamo organizzato l’intervista presso gli uffici della Boniardi&Partners con Giorgio Di Crosta, a cui va il nostro più sentito “grazie”.
Come il lettore avrà modo di verificare, questa intervista presenta delle note di diversità rispetto alle precedenti sia per la peculiarità del contesto (l’orchestra) e quindi delle esperienze vissute sia per lo stile riflessivo ed il tratto della persona intervistata. Sorprende però che alcuni temi siano simili a quelli tipici della cultura organizzativa, tra i quali ad esempio:
• la ricerca costante di innovazione, pur nel rispetto della tradizione;
• la stima e la fiducia che devono connotare i rapporti tra i componenti un gruppo, pur nel rispetto di ruoli diversi;
• lo spirito di collaborazione, quale collante del team.
Nel corso dell’intervista Giorgio Di Crosta ha sottolineato con forza l’importanza della collaborazione ed è per questo che l’intervista si apre con una fotografia in bianco e nero di Israëlis Bidermanas (1911-1980) – noto con lo pseudonimo di Izis – artista lituano naturalizzato francese, grande protagonista della street photography ed esponente di quella corrente del secondo dopoguerra definita “fotografia umanistica”. Izis Bidermanas ha colto con grande maestria un gesto semplice di due bimbi che racchiude nella sua spontaneità e semplicità lo spirito profondo del collaborare: una fotografia che parla.
Lasciamo ora spazio all’intervista.
Da sempre alla ricerca di novità, la cultura manageriale, è spesso attratta dalla “moda del momento” o dalle parole dell’”ultimo guru”. La musica anche nella sua estrema essenzialità riesce sempre ad esprimere un quid novi e Herbert von Karajan ricordava che l’orchestra è un’unità creativa. Quali possono essere le “fonti” di questa creatività? La bravura degli orchestrali? Il carisma del direttore? La ricchezza stessa della musica?
Tutte le fonti citate sono importanti per animare l’evento musicale e devono essere tra di loro in un equilibrio non sempre facile da raggiungere. Ne aggiungerei però una quarta: il pubblico. Il grande regista inglese Peter Brook ricorda che il pubblico che assiste ad una esecuzione non è solo spettatore ma diventa una specie di “assistente attivo”, comunicando non solo attraverso l’applauso ma anche con il suo attento silenzio. Può capitare che un brano musicale non ispiri in modo particolare: in questo caso è necessaria una più stretta e fattiva, direi la migliore possibile, collaborazione tra direttore e orchestra, così da approfondire il significato musicale di quel brano e capirne quindi il suo messaggio emotivo. Ciò detto, penso che in ogni caso il personaggio cardine sia il direttore, la figura cioè attorno alla quale gira un po’ tutto, che tira le redini del tutto e che se assume la responsabilità dell’esecuzione.
E ‘ormai un dato di fatto: le persone lavoreranno più a lungo e dovranno necessariamente confrontarsi con scenari tecnologici e sociali complessi e in continua evoluzione. A tal fine, disponibilità al cambiamento e propensione ad aggiornarsi di continuo saranno condizioni indispensabili per non essere emarginati nel mondo del lavoro. Sarà così anche per coloro che suonano in un’orchestra? E se sì in che modo?
Io appartengo ad una “sfera” particolare in quanto lavoro prevalentemente con la tradizione, con un qualcosa che apparentemente non cambia mai. Una sinfonia di Beethoven è quella che è, ma ogni volta che la suoni o la riprovi trovi sempre qualche cosa di nuovo e di diverso rispetto a quello che si è fatto prima. Il nuovo sta in quello che tu puoi trovare ogni volta che suoni e questa “novità” è legata anche al divenire della carriera musicale del musicista: un musicista maturo ha un approccio alla musica diverso da quando era giovanissimo. Si potrebbe dire che uno dei segreti della musica è quello di essere innovativa nella tradizione. Rispetto a 50-100 anni fa oggi si suona Mozart in modo diverso, ad esempio l’uso del vibrato nelle frasi cantabili, un tempo assai utilizzato, oggi è molto meno frequente.
La metafora dell’orchestra come organizzazione complessa è stata spesso utilizzata in letteratura (Theodor W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie. Zwölf theoretische Vorlesungen, Frankfurt am Main: Suhrkamp Verlag 1962; C. Hartiz, The Orchestra as Metaphor, Armony,11 2000). In cosa consiste, a tuo parere, la complessità organizzativa di un’orchestra? Un insieme di competenze, emozioni, sentimenti, o altro ancora? Ma è poi così faticoso vivere in questa complessità?
L’orchestra è uno spaccato della società e raggruppa persone di diversa estrazione sociale e culturale. Mi viene da dire che l’orchestra è, per citare Eduardo de Filippo, una specie di “livella”: si suona assieme e si mette un po’ da parte il proprio ego per il successo comune, altrimenti non si può essere orchestra. Fare un passo indietro è una condizione necessaria, come pure essere d’aiuto agli altri orchestrali. Quando arrivai all’Opera di Vienna, io che venivo da una esperienza puramente sinfonica, mi trovai a suonare a prima vista opere di cui talora non conoscevo neppure l’esistenza. Fui destinato ad un leggio assieme ad un collega ben più anziano di me che mi prese per mano con pazienza e rispetto, non considerandomi mai un potenziale avversario interno.
Nelle aziende il ruolo del “maestro”, cioè di colui che si fa carico di insegnare ad altri e di trasferire le proprie conoscenze, si è progressivamente perso nel tempo, messo in disparte da quella frenesia del guardare al breve che mal si concilia con la crescita strutturata delle persone. Nel mondo della musica è quasi un vanto dire “Sono stato allievo di …” oppure “Ho avuto come maestri …”. Tu hai avuto dei maestri? Anche al di fuori del “circuito musicale”? Cosa ti hanno lasciato in eredità?
Io sono stato molto fortunato. Ho iniziato a studiare il violino all’età di otto anni ed il mio maestro, Mario Balestra, è stato per me anche una specie di magister vitae. Mi sono poi perfezionato con altri insegnanti in Italia ed in Europa, dai quali ho cercato di imparare il più possibile. Circa trent’anni fa ho conosciuto il Buddismo ed ho deciso di abbracciare la scuola buddista di Nichiren Daishonin, monaco vissuto in Giappone nel XIII secolo: questo mi ha dato la possibilità di conoscere il maestro Daisaku Ikeda, presidente della Soka Gakkai International, un’associazione che promuove la crescita individuale basata sulla creazione di valore umano. In questo caso il rapporto maestro-discepolo è sì un rapporto molto stretto ma non è impostato sulla sudditanza del discepolo nei confronti del maestro ma è basato su di un rapporto paritetico, in un “dare avere” reciproco. Ho così rivisto il mio rapporto con la musica ed in particolare con il mio strumento. Come è noto il mondo dello spettacolo è una realtà piena di ego e anch’io mi sono fatto prendere dal desiderio di emergere a tutti i costi dall’anonimato e scalpitavo: studiavo, studiavo, studiavo per arrivare sempre più in alto. Poi piano piano il violino è diventato per me lo strumento non per “apparire” ma per dare gioia agli altri. E’ cambiato tutto: il modo di suonare e di approcciarmi alla musica e ho ottenuto i miei grandi risultati professionali.
Nell’orchestra, come nella maggior parte delle organizzazioni, più soggetti diversi tra di loro (dal primo violino al basso tuba) si trovano a lavorare assieme per raggiungere un obiettivo comune. Come questa “eterogeneità” può trovare il punto di aggregazione? Come il singolo può favorire il lavoro di altri per la riuscita del progetto comune?
Suonare in una orchestra è una specie di “ampliamento” del fare musica da camera. Quando suoni musica da camera, in un trio o in un quartetto, tu sei concentrato sulla tua parte ma contemporaneamente devi renderti conto di cosa succede attorno a te per una questione di insieme e di comunione di intenti musicali. Aggiungerei anche per una questione di bilanciamento sonoro: se mi capita di essere la voce principale posso suonare più forte, se invece devo accompagnare ho il compito di ascoltare e di assecondare chi in quel momento ha la predominanza. Questo succede anche nell’orchestra con la differenza che nella musica da camera non c’è direttore, che nell’ orchestra ha invece il compito di creare la fusione tra i musicisti: suonare in un’orchestra significa in sintesi anche collaborare, in modo intelligente e fattivo.
Tu hai suonato in tanti teatri in giro per il mondo, con musicisti affermati e con diversi direttori di grande prestigio. Come l’orchestra riconosce e apprezza il prestigio del direttore? E come il direttore riconosce il valore e la competenza degli orchestrali?
Il rapporto tra direttore e orchestra è a dir poco misterioso: E’ l’orchestra a far grande il direttore o è il direttore a far grande l’orchestra? A questa domanda io non sono ancora riuscito a dare una risposta precisa. Io ho avuto la fortuna di suonare con grandi direttori – Riccardo Muti, Claudio Abbado, Carlos Kleiber, Georg Solti, Valerij Gergiev, Daniel Barenboim tanto per citarne alcuni – e tutti con una fortissima personalità e forse il mistero cui prima accennavo sta nella disponibilità e nella volontà da parte dell’orchestra di collaborare con persone di straordinaria levatura, indubbiamente anche impegnative. Bisogna sempre ricordare che l’orchestra è lo specchio della specifica società di cui fa parte: ad esempio un’orchestra tedesca ha la caratteristica naturale a suonare in modo omogeneo e compatto, mentre un’orchestra italiana di solito è caratterizzata da una spiccata propensione alla cantabilità ed ha al suo interno delle individualità di eccellenza. In conclusione penso che un grande direttore debba innanzitutto essere benvoluto dall’orchestra e creare un rapporto di stima e fiducia reciproca. In fondo l’orchestra è anche un insieme di persone e non si può certo trascurare la dimensione del pathos.
Lo studio della musica e la musica in sé cosa possono insegnare ad un giovane di oggi così immerso nella dinamica del mondo digitale? A te cosa hanno insegnato? Vale sempre – mutatis mutandis – la risposta che diede Giuseppe Verdi a chi gli chiedeva il segreto della sua genialità e della sua produzione “Tre cose: lavoro, lavoro, lavoro.”?
Giuseppe Verdi aveva ragione: grandi risultati si ottengono solamente attraverso grandi sacrifici e sforzi. Ogni musicista che si è impegnato per costruirsi una carriera lo sa, come del resto ognuno nella propria vita. Forse i giovani che vivono in una società che tende talora all’effimero fanno fatica a capirlo, ma – sono certo – ci arriveranno. Sono infine convinto che lo studio della musica a qualsiasi livello possa costituire un importante patrimonio per la formazione di un giovane, perché lo aiuta a pensare in modo diverso, al di fuori di schemi consolidati e ripetitivi. E poi la musica è un grande rifugio, una fedele compagna che non abbandona mai nessuno.
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