Le interviste di B&P: Dr.ssa Marilena Ferri, Group Human Resources & Organization Officer di Autogrill
Chiudiamo il 2020 con l’intervista alla Dottoressa Marilena Ferri, Group Human Resources and Organization Officer di Autogrill S.p.A..
Nata a Pisa, brillante Laurea in Storia conseguita nel 2002 presso l’Università di Pisa, studi all’estero, Master in Human Resources Management promosso da Il Sole 24 Ore, inizia a lavorare in consulenza presso Tesi Group, a cui seguono due esperienze all’interno delle strutture HR di Philip Morris e Techdata, per poi approdare nel 2009 in Autogrill. Dopo aver ricoperto diversi ed importanti ruoli anche di respiro internazionale, la dottoressa Ferri ricopre dal febbraio 2019 il ruolo di Group Human Resources and Organization Officer per tutto il Gruppo Autogrill, dove si occupa in particolare di talent strategy, change & transformation management, assetti organizzativi, progetti di sviluppo, interagendo con i massimi livelli aziendali e con i membri del Consiglio di Amministrazione.
Abbiamo organizzato questa intervista presso gli uffici della Boniardi&Partners: mascherine, controllo della temperatura, distanziamento, gel sanificante. E’stato un po’ faticoso, ma la generosa disponibilità della Dottoressa Marilena Ferri ha fatto sì che l’iter dell’intervista potesse scorrere in maniera fluida e costruttiva.
Come abbiamo sempre ricordato, è difficile sintetizzare in modo corretto ed esaustivo un’intervista, soprattutto quando, come in questo caso, la ricchezza dei contenuti sia così vasta e profonda. Ci piace sottolineare a tal proposito alcune riflessioni e considerazioni emerse nel corso dell’intervista, come ad esempio:
- essere capaci di guardarsi dentro anche in modo severo e rigoroso quando si tratta di prendere decisioni importanti per la propria vita (messaggio questo indirizzato in particolare ai giovani);
- tener presente che l’utilizzo della tecnologia digitale e dello smart working non è un must assoluto, ma deve essere guidato dall’intelligenza dell’essere umano;
- favorire l’inclusione non significa assecondare una moda del momento ma è una straordinaria occasione per valorizzare il patrimonio complessivo dell’azienda;
- ricordarsi sempre che la prima “fonte”, seppur non unica, della motivazione è il singolo e non gli altri.
Nel ringraziare la dottoressa Marilena Ferri per la disponibilità e la cortesia manifestateci nel realizzare questa intervista, abbiamo voluto mettere in avvio dell’intervista, come nostra abitudine, un’opera d’arte che potesse essere un piccolo omaggio.
Abbiamo così scelto il ritratto di Artemisia Lomi Gentileschi realizzato attorno al 1623 da Simon Vouet. Perché? In primis perché si tratta di un’artista emancipata ed indipendente nonché di una pittrice di grande valore e spiccata personalità. Poi perché la famiglia di Artemisia Lomi Gentileschi era di origini pisane. Infine perché il suddetto dipinto fa parte delle collezioni della Fondazione Pisa e si trova sempre a Pisa presso il Palazzo Giuli Rosselmini Gualandi, noto come il Palazzo Blu.
Ed ora l’intervista.
Brillante Laurea in Storia Economica e Sociale, Erasmus presso l’Università di Tubinga, padronanza di diverse lingue straniere: come è nato in te l’interesse nei riguardi delle risorse umane? Cosa ti ha dato e cosa ti sta dando questa tua scelta professionale?
A diciott’anni la mia idea iniziale era quella di fare ricerca, iniziando così un percorso molto impegnativo in storia medievale. Bisogna anche tener presente che sono nata a Pisa, città di grandi tradizioni accademiche. Dopo essermi laureata, dopo aver trascorso due anni in Germania e dopo aver fatto una lunga attività di ricerca negli archivi storici, ho capito che la mia strada non era la ricerca. Ho partecipato poi e con successo ad un concorso per dottorato presso l’Università di Torino: era un po’ quello che tutti si aspettavano da me. Tornando in treno da Torino mi sono vista riflessa nel finestrino: era l’immagine di una persona non contenta di sé. Perché non ero contenta? Perché in fondo mi annoiavo. Che fare a questo punto? Ho riflettuto, mi sono confrontata con tante persone e alla fine ho deciso di frequentare il Master in risorse umane de Il Sole 24 ore. Lì ho capito che la mia strada era quella di occuparmi di risorse umane.
Quello che l’esperienza mi ha insegnato – e che vorrei trasferire ad altri, giovani in particolare – è che, anche passando attraverso delusioni e percorrendo sentieri faticosi ed incerti, alla fine è fondamentale sapere guardarsi dentro con impegno e determinazione, costi quel che costi.
Come è noto, il Gruppo Autogrill è una multinazionale italiana che ha dimensioni rilevanti sia come numero di dipendenti che come cifra d’affari. In particolare gli Stati Uniti rappresentano una parte molto importante del business complessivo, una caratteristica quest’ultima non facilmente riscontrabile in altre realtà italiane. Al riguardo, quali sono i principali aspetti che caratterizzano la gestione delle risorse umane negli Stati Uniti? E’ un “mondo” a parte o ci possono essere affinità e similitudini con l’Europa, Italia in particolare?
A partire dal 1800 gli Stati Uniti hanno “normato”, più che inventato, il business come noi lo conosciamo e ciò fa sì che si sentano incontrastati detentori della verità in questo campo. Al riguardo, noi europei, italiani in particolare facciamo fatica ad essere credibili ed autorevoli. Per fare un esempio ricordo che il management della consociata americana si oppose per diversi anni – ora non più – a mettere in evidenza nelle gare di appalto per le concessioni all’interno degli aeroporti il logo di Autogrill in quanto riteneva che un’azienda italiana non avesse una reputazione particolarmente positiva.
Per mia esperienza le aziende americane sono per lo più ambiti organizzativi in cui le persone conoscono bene le regole organizzative, l’articolazione dei processi, i rapporti gerarchici: se c’è chiarezza si ottiene collaborazione. Come ben si sa, la chiarezza non è sempre possibile: in questo caso penso che sia importante “spacchettare” i problemi, soprattutto quelli più complessi, suddividendoli in “micro-pezzi”, in parti semplici. Per converso il punto di forza di noi italiani è la nostra duttilità, la capacità cioè di cambiare modalità e stile di comunicazione in funzione di chi ci sta di fronte. I successi di tante aziende italiane nei Paesi Arabi ne sono una prova. Dobbiamo essere consci di avere questo distintivo punto di forza, anche se talora siamo costretti a “partire in salita”.
Digitale, smart working, intelligenza artificiale sono alcune delle sfide, e nel contempo delle straordinarie opportunità, che ci troviamo di fronte. Come pensi che cambierà il modo di lavorare nella tua azienda?
Come è noto Autogrill si occupa di ristorazione e quindi non può prescindere dalla “fisicità” del servizio, che rappresenta il cuore dell’experience. Il digitale è in ogni caso molto importante. Non a caso negli Stati Uniti si usa sempre più il QR code per l’ordinazione ed il pagamento che non prevedono più alcuna forma di interazione umana: anche qui però ci vuole sempre qualcuno che prepari e serva. Non dimentichiamo poi che il “bello” dell’experience non può prescindere dalla dimensione fisico-relazionale.
Per quanto riguarda lo smart working, di cui sono sempre stata convinta sostenitrice, già da tempo in Autogrill se ne utilizzano diverse forme. Al riguardo, penso che se da un lato lo smart working consente per quota parte di ”ossigenare” il cervello delle persone, dall’altro toglie non solo la freschezza della vita aziendale ma incide anche negativamente sull’idea generation. Lo smart working va bene in un concetto di “reattività” (“Io ti chiedo di fare una cosa, tu la fai bene ed in fretta e mi rimandi il tutto”), ma non favorisce il pensiero laterale. Dare la possibilità in azienda di utilizzare lo smart working è anche un mezzo per “dividere meno a metà la vita” e per potersi prendere cura di sé in modo più ampio. Un suo limite consiste nel fatto che non consente di dialogare in maniera continuativa e di poter cogliere i messaggi deboli, spesso preziosi e insostituibili. Manca poi il “debriefing” post riunione: come ad esempio il tradizionale caffè alla macchinetta. In sintesi, smart working sì, ma sempre con intelligenza.
“Inclusione non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche, e soprattutto, a coloro che sono reciprocamente estranei o che estranei vogliono rimanere”: così scrive il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas.
Tu come ti poni di fronte a temi quali inclusione e gender balance? Quale sarà il loro futuro?
Si tratta di un problema assai complesso, non sempre affrontato in modo approfondito. Per me la non inclusione comporta un impoverimento delle organizzazioni. Facendo riferimento al gioco del calcio è come se la formazione della nostra nazionale fosse fatta prendendo in considerazione solamente giocatori provenienti da alcune regioni. Immanuel Kant ci ricorda poi che ognuno di noi usa lenti colorate diverse nel porsi di fronte alla realtà. Nella mia esperienza ho notato che in molte aziende i sistemi di promozione sono gestiti spesso da un gruppo omogeneo di manager, perlopiù di sesso maschile e di età attorno a 55 anni. Ciò porta ad esempio a non dare la possibilità di scelta ad una donna con un figlio per un assignment all’estero e questo non per cattiveria ma per una specie di senso protettivo, fatto per giunta, e pericolosamente, in buona fede. Solitamente nel percorso di sviluppo professionale ci sono sempre degli step progressivamente più impegnativi, come ad esempio gestire progetti grandi e complessi: mi è capitato di verificare che il numero delle donne prese in considerazione è spesso inferiore a quello degli uomini. Nella scelta finale giocano poi le “alleanze”: le donne tendono ad avere pochi alleati forti e numerosi detrattori, gli uomini pochi forti sostenitori ma anche pochi detrattori. La scelta quindi è scontata. Le cose cambieranno in futuro? Certamente nella misura in cui all’interno delle aziende ci saranno sempre più persone diverse: bisogna insistere ed aver pazienza.
Il filosofo Empedocle (V secolo a.C.) parlava dei “pensieri lunghi”, quelli cioè che sono in grado di connettere i vari punti, le singole parti, i saperi particolari, le competenze specialistiche. Ritieni che il pensiero di Empedocle sia attuale? Come si può favorire lo sviluppo di pensieri lunghi in azienda?
Credo che ciò che dice Empedocle sia un fattore vincente nel futuro. Ho avuto ed ho rapporti con il Ministero dell’Istruzione: quando mi si dice che uno dei momenti più alti della nostra preparazione scolastica è rappresentato dall’ITIS (Istituto Tecnico Industriale Statale), faccio veramente fatica a capire. Negli anni ’60 e ’70 questo tipo di “specializzazione prematura” era funzionale al fatto di rendere rapidamente operativo un certo tipo di fabbrica. Oggi e sempre più domani abbiamo bisogno di giovani che sappiano vedere oltre senza fermarsi al solo dettaglio od ai particolari. Le competenze sono indispensabili, ma da sole non sono più sufficienti ad affrontare la complessità che stiamo vivendo. La specializzazione prematura può offrire nel breve alcuni vantaggi ma è pericolosa in quanto tende sempre più a divenire rapidamente obsoleta. A livello europeo si confrontano diversi modelli di istruzione, da un lato quello tedesco che tende ad indirizzare i giovani sin da subito ad una determinata specializzazione, dall’altro quello anglosassone dove ad esempio ad Oxford e a Cambridge si laureano brillanti laureati in Lettere e Filosofia che vengono poi assunti presso prestigiosi istituti finanziari. Penso in ogni caso che l’investimento in cultura, che va ben oltre il tradizionale periodo della vita dedicato agli studi, sia fondamentale ed imprescindibile.
Ed ora un argomento “classico”, forse oggi un po’accantonato: la motivazione sul lavoro. Quali sono le prime riflessioni che ti vengono in mente al riguardo? Incertezza del futuro, scenari tecnologici complessi, prospettive di “solitudine lavorativa”, competizione spinta saranno i futuri “malanni“della motivazione?
“Il coraggio, uno, se non ce l’ha mica se lo può dare” cosi diceva don Abbondio al cardinale Federico Borromeo: lo stesso vale in fondo per la motivazione. Si possono creare però le condizioni a contorno che possono favorirla. Ad esempio in questi mesi così difficili a causa della pandemia, l’essere assieme è un aspetto che agevola la motivazione, mentre trovo controproducenti quegli atteggiamenti che tendono a privilegiare l’individualismo. “Coccolare” troppo il singolo a scapito della collettività porta a trascurare il piacere di stare assieme. Essere solidali con gli altri permette anche l’attivazione di “schemi energetici” che possono aiutare le persone a far fronte alle tante difficoltà che ci piovono addosso. Essere generosi aiuta infine ad essere più felici e quindi dopotutto essere più motivati, senza mai dimenticare ciò di positivo che già abbiamo e che non è poi così poco.
Il 2020 sarà un anno difficile da dimenticare e lascerà una traccia indelebile nella storia, soprattutto in quella di ciascuno di noi, soprattutto nei giovani. Al riguardo, quali suggerimenti ti sentiresti di dare ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro? Su cosa investire per il loro futuro? Siamo di fronte ad un cambiamento epocale o – come disse lo scrittore francese Michel Houellebecq in una intervista pubblicata il 5 maggio 2020 dal Corriere della Sera – alla fine tutto sarà più o meno come prima, soltanto un po’ peggiore?
Tornare indietro non sarà possibile, diverse cose cambieranno magari non più di tanto, anche perché è difficile che qualcosa di profondamente diverso possa accadere con grande frequenza. All’interno dell’azienda l’“umanesimo“ inteso in questo caso come attenzione all’essere umano sarà un trend che ragionevolmente si svilupperà. Pensiamo ad esempio al fatto che con lo smart working è entrata in gioco anche la casa del lavoratore, quindi l’altra parte della vita. E’ probabile che ci saranno altri cambiamenti: il tradizionale orario di ufficio (il nostro 9:00-18:00) introdotto dalla Compagnia delle Indie nel tardo ‘800 e diverse rigidità che ci portiamo dietro dal fordismo saranno destinate a sparire o a modificarsi profondamente. Le giovani generazioni, prima i Millennial poi la generazione Z, porteranno all’interno delle aziende dinamiche relazionali e valori diversi ed una cultura quasi sicuramente meno consumistica.
Di certo la pandemia ha accelerato i cambiamenti che stiamo osservando, molti dei quali però giacevano sotto la cenere: la fiamma del Covid-19 ha dato loro vigore.
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