LE INTERVISTE DI B&P: LUCA DE MARCHIS GENERALE DI BRIGATA, DIRETTORE DELL’ISTITUTO DI STUDI PROFESSIONALI E GIURIDICO MILITARI PRESSO LA SCUOLA UFFICIALI DEI CARABINIERI DI ROMA

Abbiamo il piacere di avere con noi e di intervistare il generale di brigata Luca De Marchis.

Classe 1969, originario di Sesto San Giovanni (MI), sposato, una figlia, laurea in giurisprudenza conseguita presso l’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma e laurea di specialistica di II livello in “Scienze della Sicurezza interna ed esterna” conseguita presso l’Università degli Studi “Tor Vergata” di Roma, ha frequentato la Scuola Militare Nunziatella di Napoli e i corsi dell’Accademia Militare di Modena e della Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma.

Nel corso della sua carriera professionale ha ricoperto diversi incarichi, tra cui: comandante delle compagnie di Terracina e di Napoli Vomero, comandante del Gruppo Carabinieri di Milano, comandante del Reparto Carabinieri Presidenza della Repubblica, Comandante provinciale dei Carabinieri di Milano.

Dal 19 settembre 2020 è direttore dell’Istituto di Studi Professionali e Giuridico Militari presso la Scuola Ufficiali dei Carabinieri di Roma.

La nostra conoscenza di Luca De Marchis, persona al di fuori delle nostre tradizionali relazioni di lavoro, è abbastanza recente, nata mangiando assieme ad un comune amico una pizza in un locale sui Navigli di Milano. È scaturito sin da subito un rapporto di simpatia e di reciproca stima: l’intervista è un po’ “figlia” di quell’incontro in pizzeria.

Ci siamo così visti di persona un sabato mattina, nel rispetto sempre delle regole sanitarie COVID-19, negli uffici della Boniardi&Partners, gustando un buon caffè e dei cioccolatini.

Come già successo per le altre interviste è difficile, quasi impossibile, sintetizzare in poche parole un’intervista ricca di molti stimoli e contributi. Vorremmo, lasciando al lettore il gusto della lettura, ricordare solo alcuni spunti, quali ad esempio:

  • la rilevanza della storia di un’organizzazione, argomento purtroppo non sempre tenuto nella giusta considerazione;
  • l’importanza di saper coniugare in modo corretto modello organizzativo, procedure operative e contributo dei singoli;
  • il dominio di sé e la ricerca della pace interiore come elementi costitutivi di una leadership matura.

In realtà ciò che ci ha colpito particolarmente è la frase finale in cui Luca De Marchis afferma che la propria missione, come carabiniere, è quella di aiutare gli altri. È venuto così spontaneo il riferimento al quadro “Mosè e il roveto ardente” (Museo Nazionale del messaggio biblico, Nizza) dipinto nel 1966 da Marc Chagall, in cui l’artista raffigura la vocazione di Mosè investito dalla responsabilità di liberare il popolo ebraico dalla schiavitù e di condurlo alla terra promessa. Non a caso il quadro, che deve essere guardato da destra a sinistra (come la scrittura ebraica) raffigura due Mosè. Il primo sulla destra con l’abito d’un bianco quasi trasparente riceve il messaggio divino. Il secondo è dipinto come una enorme onda – sotto forma di nuvola luminosa – che separa la folla degli Egiziani inseguitori dagli Ebrei che si mettono in salvo. Il viso del profeta, dipinto in giallo, rappresenta il faro luminoso verso la salvezza: Mosè è stato indubbiamente, con l’aiuto divino, di grande aiuto per il popolo eletto.

E ora l’intervista.

“Nei secoli fedele” è il motto creato nel 1914 in occasione del primo centenario dell’Arma dei Carabinieri. La parola fedeltà, cara soprattutto agli imprenditori, fa parte anche del lessico manageriale: spesso viene associata a comportamenti virtuosi, mentre in certi casi è considerata indice di una scarsa propensione al cambiamento. Cos’è per te la fedeltà? A chi è rivolta? Come si concretizza?

Per me fedeltà è una parola viva, non assolutamente datata, profondamente “pervasiva” all’interno dell’Arma dei Carabinieri (a seguire l’Arma), dal motto prima ricordato alla Virgo Fidelis nostra patrona e protettrice. Tradurrei fedeltà con fiducia e lealtà e la declinerei in diverse dimensioni. La prima è quella personale, frutto in particolare dell’educazione che mi hanno dato i miei genitori: essere fedele a sé stessi, coerentemente con il proprio sistema valoriale. Una fedeltà che definirei “interna”. Vi è poi la fedeltà “esterna” nei confronti della mia famiglia, della missione e del giuramento prestato, un impegno solenne quest’ultimo che non ha solo rilevanza etica ma anche normativo-giuridica. Infine, “last but not least”, lealtà nei confronti dei propri collaboratori che genera poi un rapporto di fiducia reciproca: io nei confronti dei miei collaboratori e loro nei miei. Come penso si percepisca da quanto detto, fedeltà è una parola che mi è particolarmente cara ed è uno dei principali leitmotiv della mia vita personale e professionale.

Intelligenza, dominio di sé, pace interiore, capacità di stimolare, questi erano alcuni dei tratti della personalità del cardinale Carlo Maria Martini come ricordato da Gregorio Valerio, ultimo segretario, nel suo libro “Il mio Martini segreto”. Queste parole cosa ti fanno venire in mente? Sono attuali e possono essere anche riferite ad altre realtà?

Il cardinal Martini è stato un importante punto di riferimento all’interno non solo del mondo cattolico ma anche della comunità civile milanese e le caratteristiche ricordate dal suo segretario sono a mio parere quelle di un leader efficace e vorrei commentarle brevemente. L’intelligenza è capacità di comprendere e di saper scegliere e in particolare l’intelligenza emotiva, Daniel Goleman docet, è una delle principali chiavi per abilitare una leadership efficace, quella che consente tra l’altro di essere consapevoli del fatto che ognuno combatte nelle stanze silenziose della propria anima la propria battaglia. Il dominio di sé è una caratteristica che viene insegnata con molto rigore all’interno dell’Arma: prima di essere leader di qualcun altro, devi essere leader di te stesso, consapevole dei propri tratti di vulnerabilità, ricordando che conoscere sé stessi aiuta a comprendere gli altri. Vi è poi la pace interiore, di cui io stesso sono alla costante ricerca, che è un obiettivo a cui aspirare: al riguardo direi che senza il dominio di sé è ben difficile poter raggiungere la pace interiore. Infine, la capacità di stimolare che ha bisogno di costanza, impegno, applicazione, disciplina e richiede grande fatica: penso che essere leader oggi richieda un’energia intellettuale ed emotiva, in certi casi anche fisica, di straordinaria rilevanza.

“Una tradizione è tanto più solida quanto più lo è l’intelaiatura che la sostiene nel presente, cioè quanto più si continua a insegnarne i contenuti e a spiegarne il senso” (Maurizio Bettini, A che servono i Greci e i Romani?). Come fa l’Arma dei Carabinieri, istituzione che vanta un passato lungo e prestigioso, a tenere viva e “aggiornata” la propria tradizione in un mondo così dinamico, veloce, sempre meno prevedibile? In che modo questo passato, così ricco di storia e di forti valori, può non essere di freno allo sviluppo di una grande organizzazione che conta oltre 110.000 persone?

All’interno dell’Arma si è ben coscienti del fatto che essere proiettati verso il futuro significhi anche non dimenticare mai le nostre radici storiche, stante anche il fatto che la storia dell’Arma si intreccia inevitabilmente con quella del nostro paese. Ritengo che la storia ci aiuti a capire chi siamo e come siamo arrivati fin qui e che sia alla base di quella che io chiamo la leadership strategica: al riguardo, ho la sensazione che oggi tanti avvenimenti siano anche conseguenza dell’assenza di una vera e profonda conoscenza storica. Non a caso all’interno dell’Arma siamo ben consapevoli della sua importanza: ce la teniamo stretta e la insegniamo a tutti i livelli. Chiaramente c’è il rischio, soprattutto quando la storia è fatta di tante pagine di successi, che ci si ancori alla tradizione, spesso poco orientata al cambiamento, e questo rende difficile alzare lo sguardo e rendersi conto di una realtà esterna in forte e continuo cambiamento. Direi che qui la differenza la fa la persona, il singolo e soprattutto la sua curiosità e il desiderio di essere costantemente attento ai vari mutamenti che accadono attorno a lui. A tal proposito io sono molto attratto dallo strategic foresight, un processo che aiuta ad individuare possibili scenari futuri sulla base di trend evolutivi, tecnologici e sociali in particolare.

Come interagiscono tra di loro l’autorevolezza, che potremmo definire come la manifestazione esterna della leadership, e l’autorità che deriva dal grado gerarchico? In situazioni di emergenza o di particolare gravità come si articola il lavoro di squadra e come si relaziona con la prestazione e l’impegno del singolo?

Indubbiamente la relazione tra autorevolezza ed autorità è particolarmente sentita all’interno dell’Arma. Devo dire che negli ultimi decenni il concetto di autorevolezza ha preso il sopravvento rispetto a quello di autorità gerarchica, in primis perché c’è stata una rivoluzione nell’ambito militare. Infatti, a partire dagli anni ’80 con le leggi in tema di procedimenti disciplinari, il modello organizzativo militare si è permeato di democrazia: ad esempio la frase “stia punito” oggi è scomparsa e la si può ritrovare solamente in qualche vecchio film. Inoltre, pochi anni fa la Corte Costituzionale ha riconosciuto la legittimità della formazione di associazioni sindacali tra i militari: una cosa impensabile in anni passati. Anche alla luce di questi cambiamenti è chiaro che l’autorevolezza abbia oggi un ruolo fondamentale. Quella che io chiamo leadership gerarchica fa sì che il collaboratore possa far bene ciò che deve ma difficilmente si riesce ad andare oltre: non si è di fatto in grado di “portarlo a bordo” nel tentare di raggiungere obiettivi più impegnativi e ambiziosi. La leadership gerarchica può anche essere un positivo punto di partenza ma il rischio è che ci si fermi lì. È invece fondamentale che si possa esprimere nei confronti del collaboratore una autorevolezza fatta di fiducia, lealtà, percezione di equità: in altre parole passare da uno stile puramente direttivo ad uno relazionale. Certamente la leadership gerarchica legata al grado può essere di aiuto nel gestire situazioni di emergenza. Ciò detto però può capitare che il leader gerarchico non sia presente o non sia in grado di risolvere tempestivamente una situazione di particolare criticità. Penso che i cittadini lombardi si ricorderanno di quel bus di linea di Crema con a bordo cinquanta ragazzini dirottato e dato poi alle fiamme dall’autista: il tutto fu risolto positivamente grazie all’intervento sinergico di alcune pattuglie che erano sul territorio e che, in assenza in quel momento, di un comandante che potesse raggiungere rapidamente il luogo dell’incidente si sono coordinate, dimostrando preparazione e coraggio. Al riguardo, non bisogna però dimenticare due aspetti importantissimi. Il primo è il modello organizzativo che caratterizza l’Arma cioè la sua presenza capillare sul territorio, che ha fatto sì che, nel momento dell’emergenza, fossero presenti diverse pattuglie. Il secondo consiste nell’applicazione di protocolli e processi di intervento, per cui si sa ciò che si deve fare in determinate situazioni. E si sa ciò che si deve fare non solo perché lo si è studiato ma soprattutto perché lo si pratica, affinandolo, quotidianamente. E poi non dimentichiamo quel mix magico fatto di talento dei singoli e di una certa dose di fortuna…Vorrei concludere ricordando un tratto personale: l’essere stato per alcuni anni il responsabile della sicurezza e protezione del Presidente della Repubblica mi ha insegnato quanto siano importanti da un lato la concentrazione dall’altro l’essere preparati ad affrontare l’imprevisto (mi vengono in mente le parole del vangelo di Matteo “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora”). Temo che tra cellulari, smart working, teams e skype call e digital equipment, la concentrazione faccia un po’ fatica oggi ad avere il suo…spazio.

Il processo di selezione, tradizionalmente il primo pilastro su cui si articola il processo di sviluppo delle persone, è fatto di diversi momenti e tra questi il più importante e delicato riguarda la valutazione dei candidati. Quali sono le caratteristiche della personalità che l’Arma dei Carabinieri prende oggi in considerazione nel valutare le persone? Vi sono caratteristiche “comuni” identiche per tutti i ruoli e altre “specifiche” in funzione della natura degli incarichi e del percorso di sviluppo?

Al netto di alcuni criteri oggettivi (titoli di studio) e di alcuni standard fisici (stato di salute, robustezza) e del superamento di alcune prove fisiche, la selezione è curata dal nostro centro nazionale di selezione e di reclutamento a Roma che si occupa in particolare della valutazione psicologica dei candidati. Direi che sono tre le principali aree di “investigazione” e questo è comune a tutti coloro che si candidano ad entrare nell’Arma. L’equilibrio complessivo della persona come pure il dominio di sé sono imprescindibili per una professione che comporta anche l’espressione di un potere coercitivo e limitante la libertà degli individui. La terza area di investigazione riguarda la motivazione ad intraprendere una attività non certo “tradizionale”, che faccio io stesso fatica a definire un “mestiere”. Per quanto attiene alla selezione di coloro destinati ad incarichi di natura direttiva ed in prospettiva dirigenziale vengono prese in considerazione altre aree di valutazione, quali ad esempio la gestione e il coordinamento di persone, la capacità di ascolto, l’assetto valoriale, il potenziale. Infine, per quanto attiene alle specializzazioni, come i gruppi di intervento speciale oppure gli elicotteristi, vengono predisposti iter di selezione ad hoc, a cui possono partecipare però unicamente coloro che già sono appartenenti all’Arma: l’obiettivo è di assicurare e mantenere nel tempo identità culturale ed omogeneità nella conoscenza della organizzazione e della missione dell’Arma.

“Le attitudini si presuppongono, ma devono diventare capacità. Questo è lo scopo di ogni educazione”. Ti ritrovi in queste parole di Johann Wolfgang von Goethe? Quali saranno le sfide che l’Arma dei Carabinieri dovrà affrontare nel campo della formazione delle proprie strutture direttive? Quanto sarà importante essere aggiornati da un lato sulle nuove sfide tecnologiche (digitale, IoT, metaverso, realtà aumentata) dall’altro sulla evoluzione sempre più frenetica dei cambiamenti sociali?

All’interno dell’Arma la trasformazione delle attitudini in capacità attraverso il percorso formativo passa per una forte connotazione esperienziale. Il nostro centro di psicologia applicata per la formazione assieme al Centro Alti Studi della Difesa forma delle persone, i “formatori esperienziali”, che hanno il compito di far sì che le attitudini dei singoli si trasformino in capacità, utilizzando ad esempio i cicli di esperienze, un po’ sulla falsariga di ciò che ha teorizzato l’educatore statunitense David Kolb in merito ai cicli di apprendimento: esperienza concreta, osservazione riflessiva, concettualizzazione astratta, sperimentazione attiva. Accanto ad altri interventi formativi di natura, ad esempio, culturale, giuridica, tecnico-professionale, mi piace ricordare la nostra attività in tema di leadership articolata secondo quattro dimensioni: il singolo, il gruppo di lavoro, la struttura organizzativa, la dimensione strategica. Vi è poi crescente attenzione alle nuove tecnologie: in questo caso attingiamo dal mondo civile quelle competenze e specializzazioni ritenute imprescindibili per essere sempre in linea con i tempi, vedi ad esempio una laureata esperta di intelligenza artificiale oggi ufficiale dell’Arma. Non è poi forse così futuribile ipotizzare che le forze di polizia come pure i carabinieri si debbano confrontare con il mondo del metaverso e con la dimensione virtuale. Concludo ricordando che è stata creata presso la Scuola Ufficiali la cattedra di “Etica, leadership, comunicazione”, che si occuperà delle tre dimensioni che saranno probabilmente impattanti e significative nella governance futura della complessità.

Nel caso ti facessero una domanda improvvisa come ad esempio “Carabinieri si nasce o si diventa?” cosa risponderesti? In particolare, cosa suggeriresti a dei giovani interessati ad entrare nell’Arma?

Carabinieri si diventa e di ciò ne sono profondamente convinto e diventare carabiniere è un processo che dura tutta una vita: non si è carabinieri solamente perché si indossa una divisa. Ai giovani suggerirei di chiedersi innanzitutto quale significato e valore vogliono dare alla propria vita e come intendono interpretarla, sapendo che si può servire il proprio paese in tanti modi sia nel pubblico che nel privato. Secondo me scegliere di fare e di essere carabiniere è una modalità intensa e profonda di dare significato alla propria esistenza. Dico spesso a me stesso e a chi mi sta attorno che la mia missione è in fondo quella di aiutare gli altri.