LA FATICA ORGANIZZATIVA: RIFLESSIONI TRA IL PASSATO E IL COVID-19
Renato Boniardi, Presidente di Boniardi&Partners
Francesca Puddu, Senior Partner di Boniardi&Partners
Questo scritto si pone l’obiettivo di portare all’attenzione il tema della fatica, argomento affrontato nel corso degli anni da varie discipline (medicina, psicologia, sociologia, filosofia, per citarne alcune). Un tema “antico”, complesso, più difficile di quanto si possa immaginare, affrontato per lo più “in ordine sparso”, reso oggi ancor più complesso per l’impatto della pandemia da Covid-19.
In questo scritto ci si concentra in particolare su quella tipologia di fatica legata al funzionamento dell’organizzazione aziendale nel suo complesso: la fatica organizzativa. Le riflessioni proposte non sono ancora frutto di approfondimenti strutturati e di ricerche, ma sono considerazioni tratte dalla nostra esperienza di “osservatori” della realtà organizzativa aziendale.
Il tema di fondo può essere così sintetizzato: la fatica organizzativa è un fatto “fisiologico” della vita aziendale, ma se diviene un fatto “patologico” può incidere negativamente sulla prestazione non solo dei singoli ma anche delle aziende. Sorge quindi una domanda: un’organizzazione, patologicamente affaticata, può sviluppare con successo e nei tempi giusti innovazione e mantenere negli anni posizioni di leadership? “
Introduzione
La fatica, quella dell’uomo, è un tema poco studiato sebbene oggetto di frequenti discussioni, considerato fuori moda, quasi dimenticato. Si tratta di un argomento antico che trovò spazio e attenzione, mai eccessivi, nei secoli passati. Ad esempio, nelle pagine bibliche delle Ecclesiaste che così recitano: “Io ho considerato anche tutta la fatica e tutto l’impegno nell’agire umano: è solo invidia dell’uno per l’altro. Anche questo è vuoto e fame di vento. Lo stupido incrocia le braccia e si consuma l’esistenza. Meglio però una mano piena ma in serenità che due colme ma con fatica e fame di vento. (4,4-6)”. Oppure nell’espressione “pathei mathos”, tratta dalla tragedia greca Agamennone di Eschilo, dove si sottolinea che la conoscenza si forma attraverso la sofferenza, un aspetto della fatica.
Oppure nei dipinti di Jean François Millet (1814-1875), di Guido Tavagnacco (1920-1990) e di Giuseppe Canella (1788-1847) e per finire nella scultura ellenistica dell’Atlante di Farnese conservata al Museo Nazionale Archeologico di Napoli.
Prima di affrontare il tema della fatica organizzativa, vorremmo fare tesoro di alcuni contributi e spunti tratti dalla lettura del libro “La Fatica” di Angelo Mosso, suggeritoci dal caro e compianto professor Nicola Dioguardi. Angelo Mosso (1846-1910) fu docente di fisiologia all’Università di Torino e discepolo di Ugo Kronecker, professore di fisiologia presso l’Università di Berna. Incamminandoci per una strada del tutto lontana dai nostri percorsi di studio e di lavoro, cercheremo di avere come compagni di viaggio modestia e prudenza, aiutati anche dal fatto che la scrittura “mossiana” è di facile ed immediata comprensione, caratteristica delle persone di profonda competenza e vasta cultura.
Secondo Angelo Mosso la fatica è connaturata al lavoro, fisico o intellettuale che sia, e più in generale al vivere. Al riguardo, pensiamo non ci sia persona al mondo che, nel corso della propria esistenza, non abbia mai esclamato: “Sono affaticato”. Alla luce poi dei drammatici avvenimenti legati alla pandemia Covid-19 non possiamo non tener conto di una faticosità aggiuntiva, un mix di preoccupazioni, del cambiamento dei ritmi della vita lavorativa, personale, familiare, dell’incessante bombardamento di notizie spesso non rassicuranti, del peso di tante situazioni dolorose. Sicuramente questa ulteriore fatica ha reso molte persone più fragili sotto il profilo della “tenuta psicologica”: si tratta di un aspetto da non dimenticare cui sarà necessario porre rimedio al fine di evitare che il ritmo della vita che ha subìto comprensibilmente dei rallentamenti non si trasformi in un pericoloso letargo nei pensieri e nei comportamenti.
La fatica è un “vissuto ad personam”, una situazione percepita ed espressa secondo modalità e tonalità uniche ed esclusive: ognuno di noi ha la “propria fatica”. E’ anche difficile, forse impossibile, misurarla secondo parametri rigorosi e puntuali, come avviene in altre attività umane.
Come ricorda inoltre Angelo Mosso “la fatica, che pure dobbiamo considerare come un avvelenamento, può alterare la costituzione del sangue e le condizioni della vita, senza che l’avvertiamo o dando appena qualche segno oscuro di esaurimento” (La Fatica, Angelo Mosso – Giunti Editore 2001 – pag. 210).
La fatica però non porta sempre con sé un quid di negatività. “Cogenda mens ut incipiat”, così scriveva Seneca (Epistolae morales ad Lucilium, libro 5^, lettera 50) sottolineando come sia necessario forzare la mente perché inizi a lavorare. In certe situazioni – come nel caso di poeti, artisti e compositori – “la macchina, funzionando, non si deprime e non scema la sua forza, ma diviene anzi più atta al lavoro” (La Fatica, Angelo Mosso – Giunti Editore 2001 – pag. 259).
Ci sono infine anche degli antidoti per superare la fatica. Oltre al riposo che è la risposta naturale alla fatica stessa, Angelo Mosso sottolinea l’importanza della varietà dei contenuti e delle modalità in cui si concretizzano le attività lavorative, in particolare quelle di natura intellettuale, come evidenziano anche alcune esperienze testimoniate dallo stesso autore.
La fatica organizzativa: un tentativo di definizione
Vorremmo innanzitutto fare una doverosa premessa. Affrontando un tema nuovo, quantomeno dal titolo, l’obiettivo che ci prefiggiamo è di suggerire alcuni iniziali spunti di riflessione, che dovranno essere poi di stimolo per futuri e rigorosi approfondimenti e verifiche empiriche.
Ci assumiamo pertanto la responsabilità di fare da “apripista”, augurandoci che le nostre parole possano risultare utili ed interessanti, consci in ogni caso di essere di fronte ad un tema ricco di molte sfaccettature, frutto dei contributi offerti negli anni da varie discipline. Siamo pure consapevoli del fatto di essere i primi “destinatari” di questo scritto: un’occasione privilegiata di presa di coscienza di fronte ad un tema affascinante, molto coinvolgente e nel contempo “scivoloso”.
La fatica organizzativa fa riferimento ad una determinata categoria di realtà sociali fondate sulla divisione del lavoro e sulle competenze, quali le imprese economiche, la pubblica amministrazione, le associazioni culturali, politiche, religiose, ecc.… In questo caso faremo riferimento in modo specifico alle organizzazioni aziendali nelle quali la fatica è ovviamente circoscritta alle persone che operano all’interno della stessa.
La fatica organizzativa è legata non tanto al lavoro in sé, individuale o collettivo che sia, quanto piuttosto al lavoro svolto in determinati ambienti, situazioni, circostanze, periodi temporali: potremmo parlare così di una specie di “lavoro aumentato”, mutuando questa espressione dalla cosiddetta “realtà aumentata”, in cui alla normale realtà percepita dai sensi si sovrappongono altre informazioni artificiali e virtuali. Di fatto, la fatica organizzativa è la conseguenza del funzionamento complessivo dell’organizzazione aziendale, dove le varie attività lavorative interagiscono con altri elementi e aspetti “collaterali”, come avremo modo di analizzare nei capitoli a seguire. A ciò si deve aggiungere che il tempo trascorso in smart working e in video chat, divenuti importanti e imprescindibili strumenti di lavoro soprattutto in una situazione di lockdown, provoca un supplemento di stanchezza dovuto al fatto che trascorrere ore e ore dinnanzi ad uno schermo aumenta il consumo di energie mentali e fisiche. Un recente studio del Laboratorio di Interazione Umana Virtuale presso la Stanford University ha messo in evidenza che lo schermo crea un contesto relazionale artificioso, genera ulteriore stress e impoverisce lo scambio interpersonale. In un futuro, dove si vedrà sicuramente uno stabile e costante utilizzo dello smart working, sarà indispensabile evitare che il contesto lavorativo non solo si impoverisca o crei diseguaglianze, ma anche non incoraggi il nascere e il perdurare di nuove abitudini che possono influire in modo non del tutto positivo sulle dinamiche relazionali e sociali: è un costo che non ci si può permettere soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.
La fatica organizzativa: le fonti
Diverse sono le fonti da cui può nascere ed alimentarsi la fatica organizzativa. Al riguardo ci limiteremo a prenderne in considerazione quattro e cioè: relazioni interpersonali, assetto organizzativo, processi/sistemi, ambiente, e più precisamente:
- in primis la natura e la qualità delle relazioni tra le persone (colleghi, capi, collaboratori) che regolano, ad esempio, la competizione interna, la trasparenza dei comportamenti, le modalità di delega e controllo, il consenso o il dissenso, il lavoro di gruppo;
- in secondo luogo il livello di coerenza dell’assetto organizzativo aziendale, da cui derivano tra l’altro la funzionalità e la fluidità delle attività, l’attribuzione delle responsabilità ai vari livelli, la regolazione dei meccanismi operativi;
- in terzo luogo l’attendibilità dei sistemi di pianificazione e controllo e la “calibratura” dei sistemi informativi, i primi a supporto della presa di decisioni e della lettura dell’andamento dell’azienda, i secondi focalizzati sulla ottimizzazione dei processi e sulla fruibilità di dati e informazioni;
- in quarto ed ultimo luogo l’ambiente di lavoro sotto il profilo sia ’“hardware” (ad esempio, arredo degli uffici, lay-out dei reparti, arredi e colori della mensa) sia “software” (ad esempio, sistemi premianti, percezione dell’equità di trattamento, partecipazione ai percorsi di crescita professionale). Per quanto poi riguarda il luogo di lavoro non possiamo tralasciare lo smart working, già in uso in diverse organizzazioni aziendali, ma ancor più diffuso a seguito della pandemia da Covid-19. Lo smart working, che per sua natura non prevede postazioni fisse ed è reso agile da una tecnologia sempre più sofisticata, presenta per le aziende e per i singoli lavoratori aspetti positivi e criticità, che non sempre possono essere facilmente individuati. La letteratura manageriale ha già scritto pagine importanti su questo tema: al riguardo, in una prospettiva di lungo periodo, riteniamo doveroso tener presente che le distanze tra i “lavoratori della conoscenza” e gli altri si accentueranno e che molto probabilmente buoni lavori si potranno fare anche da casa, ma non quelli essenziali.
Sebbene le specificazioni delle fonti soprariportate siano puramente a titolo di esemplificazione, quindi non esaustive, il quadro che emerge è articolato e variegato a tal punto da poter apparire confuso e talora contraddittorio. Al riguardo è ipotizzabile che la fatica studiata dalla medicina e la fatica organizzativa abbiano un tratto in comune: la loro ineluttabile complessità e la conseguente difficoltà nel poterle definire, inquadrare e quantificare con facilità. In ogni caso mi pare che un aspetto emerga in modo incontrovertibile: le fonti della fatica organizzativa sono per lo più nelle mani del management, vale a dire, di coloro che guidano, gestiscono e di fatto condizionano nel bene e nel male il funzionamento dell’organizzazione aziendale.
La fatica organizzativa: le caratteristiche
Cercare di definire le caratteristiche della fatica organizzativa comporta di aggiungere un altro tratto di strada in salita, indispensabile per avvicinarsi al traguardo, non ancora quello finale, ma quello intermedio di un gran premio della montagna.
Una prima caratteristica, forse la più importante, consiste nel fatto che la fatica organizzativa non è un quid ben preciso, ma un continuum che va da un minimo ad un massimo, mutevole nel tempo e dall’andamento instabile: quanto più ci si avvicina al massimo di questo continuum emergono “patologie” organizzative e relazionali di diversa natura, rilevanza e gravità. Come si è detto agli inizi, la fatica organizzativa è connaturata al funzionamento complessivo dell’azienda e come tale non è eliminabile ed è strettamente legata a come viene percepita e vissuta dai singoli. Al riguardo, pensiamo si possa parlare di una “fatica organizzativa ad personam o situazionale”.
Una seconda caratteristica riguarda la difficoltà nel misurare la fatica organizzativa, in quanto legata non solo alla quantità e alla varietà delle fonti da cui può pervenire ma anche alle loro interconnessioni spesso difficili da individuare. La misurazione (mai facile e non sempre possibile) richiede tra l’altro metodologie e strumentazioni differenti e molto sofisticate oppure metodi empirici assai grossolani (come ad esempio il tempo impiegato per alzarsi in piedi da seduto): ne consegue la difficoltà di avere un quadro omogeneo e scevro da contraddizioni. Quantomeno in una fase iniziale, riteniamo sia dunque necessario accettare di poter raggiungere una ragionevole approssimazione.
Una terza caratteristica riguarda il grado di consapevolezza e di accettazione della fatica organizzativa. Generalmente si tende per lo più a disconoscerla o a sottovalutarla o addirittura a “colpevolizzarla”: la trascuratezza o la superficialità nel non porvi rimedio rappresentano un atteggiamento controproducente. Infatti la fatica organizzativa trascurata diviene, per riprendere le sagge parole di Angelo Mosso, una forma di avvelenamento dei singoli e a seguire dell’organizzazione stessa, a cui porre rimedio diviene sempre più difficile con il passare del tempo. A tal riguardo sarà compito del management aziendale impegnarsi in una preziosa opera di ricostruzione del morale e di quella energia propositiva che il lungo periodo di lockdown e pandemia hanno un po’ “anestetizzato”: bisogna essere consapevoli che mai come in questo caso l’impegno partecipato e diffuso a tutti i livelli è determinante nel poter cogliere con successo le straordinarie, e probabilmente irrepetibili, sfide dei prossimi anni.
A differenza delle fonti, che sono più facilmente individuabili, le caratteristiche della fatica organizzativa sono difficili da definire e da far emergere in quanto hanno una magmaticità diffusa, non sono ben specifiche ma frutto spesso della copresenza di diversi fattori costitutivi e sono soggette alla variabilità e all’imprevedibilità dei comportamenti e delle motivazioni dei singoli.
La fatica organizzativa: gli indicatori
In questo percorso in costante salita, affrontiamo ora un altro tema quanto mai arduo: individuare e definire i possibili indicatori della fatica organizzativa.
Innanzitutto gli indicatori possono essere di duplice natura e più precisamente quantitativi e qualitativi. Essi non sono “sommabili” tra di loro, non sono applicabili tout court a tutte le realtà organizzative in modo omogeneo ma devono tener conto delle peculiarità di ciascuna, e pur essendo relativi ad un determinato momento storico devono essere presi in considerazione in un arco temporale specifico (ad esempio gli ultimi 3-5 anni).
Tra gli indicatori quantitativi potremmo indicare a mo’ di esempio:
- età ed anzianità del personale;
- tassi di assenteismo/infortuni;
- numero dei brevetti sviluppati;
- time-to-market dei prodotti;
- indici di produttività;
- tempo dedicato alle riunioni e ai processi di governance;
- obsolescenza del portafoglio prodotti.
Tra gli indicatori qualitativi ad esempio potremmo citare:
- clima interno;
- welfare aziendale;
- livello di motivazione;
- tassi di turnover (soprattutto quello qualitativo);
- formalità/informalità dei rapporti all’interno dell’azienda.
A questi indicatori se ne possono aggiungere altri di “natura contingente” che riguardano le modalità con cui le aziende sono state “vicine” ai propri collaboratori durante il periodo di pandemia Covid-19: ad esempio le azioni messe in campo a tutela della salute e della sicurezza, il modo in cui si è riorganizzato il lavoro per favorire l’utilizzo dello smart working, quale supporto è stato fornito a quei collaboratori che sono stati colpiti nei loro affetti.
L’estrema varietà e il variegato numero dei potenziali indicatori potrebbero rendere particolarmente arduo, eccessivo e forse anche vano lo sforzo per individuarli: l’osservazione è comprensibile e legittima. Dato però che l’individuazione degli indicatori è fondamentale per poter disporre di un quadro sufficientemente puntuale e chiaro della fatica organizzativa, verrebbe spontaneo suggerire un approccio pragmatico e pertanto di concentrarsi, quantomeno agli inizi, su quegli indicatori che appaiono sin da subito più significativi e pertinenti. Un “affinamento” potrebbe essere lasciato ad un momento successivo. Come potrebbe essere lasciato a un’altra successiva fase la messa a punto di una specie di tableau de bord, atto a monitorare in modo più agevole e rapido l’andamento della fatica organizzativa.
Considerazioni non finali
Il titolo di quest’ultimo paragrafo potrebbe apparire avvincente ed intrigante, ed è probabilmente la conclusione più corretta di questo lavoro, che – è bene ricordarsi – si è posto l’obiettivo di gettare un piccolo sasso in uno stagno piatto ed immobile. Riteniamo che la fatica organizzativa sia un argomento – come già rimarcato – difficile e complesso e che richiede pertanto importanti e progressivi approfondimenti: ma perché merita di essere approfondito? A tal riguardo affiorano alcune domande.
La fatica organizzativa è innanzitutto la compagna di viaggio di tutti coloro che lavorano in azienda. Deve pertanto essere accettata di default? Ma fino a che punto può essere tollerata? Deve essere accettata anche a scapito di generare interferenze negative nei confronti del raggiungimento degli obiettivi aziendali, di pregiudicare le potenzialità aziendali, di produrre pericolose tensioni interne?
In secondo luogo si è sempre detto e scritto che il cambiamento è fatica. Qui ci permettiamo di esprimere una posizione diversa, in quanto riteniamo che il cambiamento non sia più un fatto “episodico” ma una costante del nostro futuro. Salvo casi di particolari difficoltà e complessità che necessitano di attenzioni specifiche – vedi, ad esempio, cambi radicali di tecnologia o di discontinuità del business – il cambiamento, purché gestito responsabilmente e non lasciato a dinamiche incontrollate, è tanto impegnativo quanto vitale per l’organizzazione e stimolante per i singoli. Si tratta così di ricercare il punto di ottimale equilibrio all’interno di sistemi caratterizzati da forme instabili di dinamicità e di instabilità che possono generare tensioni. Ma che succede se il cambiamento coinvolge realtà aziendali in cui la fatica organizzativa presenta già aspetti critici o patologici? Quali negatività possono emergere e svilupparsi?
In terzo luogo, in un mondo concentrato prevalentemente sulle individualità, come viene considerata la fatica organizzativa condivisa? Come può essere apprezzata la fatica di coloro che non emergono ma sono comunque essenziali per il successo del leader, come avviene ad esempio nel mondo del ciclismo dove chi arriva ultimo non è sempre il peggiore?
Da ultimo, se la fatica organizzativa può essere considerata una delle nuove sfide trasversali che coinvolge il management aziendale, come deve attrezzarsi quest’ultimo da un lato per essere protagonista di quello che potrebbe essere un rinnovato modello di gestione di persone e di fenomeni organizzativi e dall’altro come ripensare il proprio ruolo in termini di contenuti e modalità relazionali? E come dovrebbero comportarsi gli azionisti?
Concludere uno scritto con così tanti punti interrogativi parrebbe quasi una resa, una implicita ammissione di essere di fronte ad un tema praticamente irrisolvibile. Oppure, ed è il nostro sincero auspicio, le numerose domande possono essere fonte di ipotesi e congetture da sottoporre ad un rigoroso percorso di verifiche empiriche, secondo i corretti canoni della ricerca.
Nel frattempo per alleggerire il peso di dover rispondere a “domande faticose”, ci permettiamo di prendere a prestito la poesia “Lavoro” di Umberto Saba, i cui versi così recitano:
Un tempo
La mia vita era facile. La terra
Mi dava fiori frutta in abbondanza.
Or dissodo un terreno secco e duro.
La vanga
Urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo
Profondo, come chi cerca un tesoro.
BIBLIOGRAFIA
- La fatica, Angelo Mosso, Giunti Editori, 2001
- Se il lavoro si fa gig, Colin Crouch, Il Mulino, 2019
- Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Zigmunt Bauman, Laterza, 2001
- The psychology of fatigue: work, effort and control, Robert Hockey, Cambridge University Press, 2013
- Il lavoro nel XXI secolo, Domenico De Masi, Einaudi, 2018
- Trattato di sociologia del lavoro, George Friedman e Pierre Naville, Edizioni di Comunità, 1973
- Dizionario di sociologia, Lucino Gallino, Feltrinelli, 1978
- Il lavoro nell’era digitale, Solfanelli, 2020
- L’Organizzazione nascosta, Mario Perini, Milano, Franco Angeli, 2007
- Bion W. R. (1962b), Learning from Experience, London: William Heinemann (trad. : Apprendere dall’esperienza, Roma: Armando, 1972)
- Klein M. (1946), Notes on some schizoid mechanisms, Int. J. Psychoanal., 27:99-110 (trad. it.: Note su alcuni meccanismi schizoidi, in Scritti 1921-1958, Torino: Bollati Boringhieri, 1978, pp. 409-434)
- Obholzer A. (1996), Psychoanalytic contributions to authority and leadership issues, The Leadership & Organization Development Journal, 1996, 17 (6)
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