LE INTERVISTE DI B&P: GABRIELLA CARMAGNOLA, SCRITTRICE DAL BRILLANTE CURRICULUM MANAGERIALE

Continuiamo le interviste del 2023, coinvolgendo Gabriella Carmagnola.

Torinese, liceo scientifico e laurea con lode in Filosofia (relatore Gianni Vattimo, titolo della tesi “La concezione della verità nella filosofia contemporanea”), coniugata, una figlia, Gabriella ha iniziato la propria carriera lavorativa presso la consociata italiana del gruppo statunitense Du Pont de Nemours, dove ha ricoperto il ruolo di External Affairs manager.

Successivamente è stata responsabile per l’Italia delle relazioni con i media e delle attività editoriali del gruppo chimico Dow Chemical. Dal 1991, e per una trentina d’anni, è stata responsabile delle attività di comunicazione e relazioni esterne della Associazione Nazionale per le imprese assicuratrici e riassicuratrici. Pubblicista per la redazione culturale de “Il Giornale” diretto da Indro Montanelli, è stata docente presso l’Ordine dei giornalisti della Lombardia. È autrice di due libri L’inganno (1999) e Non lo dire a nessuno(2022). Ha una rubrica settimanale sul magazine online di Tiscali “Milleunadonna”, in cui invita a leggere un classico, un libro del passato che ci parla ancora e ne racconta il perché.

Il rapporto con Gabriella, lontano nel tempo (alcuni decenni) e che la distanza tra Milano e Roma non ha mai interrotto, è sfociato in una amicizia basata non tanto sul ritmo e sulla frequenza dello stare assieme ma piuttosto sul comune profondo sentire. La presentazione del suo ultimo libro a Milano alcuni mesi or sono presso il teatro Franco Parenti è stata l’occasione per proporle questa intervista che, anche per darci un certo “allure tecnologico”, abbiamo organizzato in modo virtuale.

Come abbiamo già ricordato in occasione di altre interviste, è difficile e soprattutto riduttivo sintetizzare i tanti e diversi contributi emersi nell’intervista, tra cui però meritano di essere ricordati:

  • l’importanza che riveste la persona in un mondo sempre più tecnologico e spesso “distaccato”;
  • l’invito non solo ad ascoltare ma anche a sapersi ascoltare;
  • la rilevanza della riflessione come momento guida dell’azione (forte è il suo messaggio rivolto in particolare a coloro che stanno ricoprendo o vorranno ricoprire un ruolo nel mondo della comunicazione).

È così sorto spontaneo ed immediato il riferimento alla scultura bronzea “Il pensatore” di Auguste Rodin (1840-1917), conservata nel museo che porta il suo nome a Parigi. Rodin, progenitore della scultura moderna che in questo caso sembra richiamare alcune creazioni michelangiolesche, ha voluto realizzare un’opera che simboleggiasse l’essere umano che riflette sul proprio destino e sulla vita. Non a caso questa scultura è talora utilizzata per raffigurare la filosofia: il pensiero come elemento creatore e prerogativa dell’uomo.

E ora, come sempre, spazio all’intervista.

Tu hai una lunga e qualificata esperienza del settore della comunicazione maturata all’interno di prestigiose aziende multinazionali e di una importante struttura associativa. Quali sono stati negli ultimi anni i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato il mondo della comunicazione? Quali competenze e quali “note individuali” dovrà avere la persona che ricoprirà il ruolo di Responsabile della Comunicazione e delle Relazioni Esterne?

Penso che oggi siano richieste competenze maggiori rispetto al passato in quanto bisogna conoscere il più possibile, anche se non sotto il profilo strettamente tecnico, le potenzialità che offrono ad esempio i nuovi media, i canali social, le piattaforme in modo tale da saperle utilizzare correttamente. Quotidiani, riviste, reti televisive, pubblicità, relazioni istituzionali, la conoscenza se occorre del “Palazzo” fanno sempre parte dello “zaino professionale” di una persona che si occupa di comunicazione e di relazioni esterne, ma non è più sufficiente. Detto questo vale sempre la regola per cui bisogna essere al contempo artigiani e architetti: curare i dettagli ed avere sempre una visione complessiva dei problemi che si affrontano. Max Horkheimer, rappresentante della Scuola di Francoforte e autore molto letto negli anni ‘80 e oggi riconsiderato, nel libro L’eclisse della ragione metteva in guardia dal rischio che la tecnica potesse condizionare pesantemente la ragione così da trasformare l’uomo in schiavo della tecnica. Le riflessioni di questo autore mi portano a suggerire a coloro che intraprendono un percorso professionale nel campo delle comunicazioni di tener sempre presente che gli strumenti ed i mezzi oggi a disposizione – e di cui non se ne può più fare a meno – sono di una potenzialità straordinaria, ma non è tutto. Non dimentichiamo mai il fine ultimo per cui si utilizza una tecnica, che è quello che ci tiene insieme. La ragione e la morale si sovrappongono spesso.

Albert Manguel nel libro Una storia naturale della curiosità ricorda che la macchina della memoria di Orazio Toscanella (Venezia, 1569) “fu progettata per aiutare la strutturazione di argomenti retorici nati da qualunque premessa data”: una specie di ChatGPT ante litteram, il cui utilizzo oggi fa tanto discutere. Secondo te, l’intelligenza artificiale come potrà influenzare, il nostro modo di ragionare e di lavorare? Potrà condizionare anche il modo di scrivere? ChatGPT sarà un prezioso alleato o un pericoloso concorrente?

Se usata con criterio la ChatGPT può essere senz’altro un aiuto, prendendola però sempre con le pinze, in quanto questo strumento non ti dà delle risposte: si può dire che abbia la funzione di un “additivo”, di un “integratore”. Io stessa nello scrivere l’ultimo romanzo ho utilizzato molto le risorse della rete: un tempo avrei dovuto trascorrere ore e ore in biblioteca e molto probabilmente non avrei trovato tutte le informazioni di cui necessitavo. Penso però che non si possa prescindere dalla creatività e dalla sensibilità umana se si vuole ottenere qualcosa di qualitativamente distintivo e questo non riguarda solo lo scrittore. ChatGPT non avrà mai probabilmente un’anima, ma non è detto che ciò sia purtroppo una peculiarità attribuibile solamente allo strumento…

Da manager e da scrittrice vivi da tanto tempo nel “mondo delle parole”, in particolare di quelle scritte che sono una “componente” imprescindibile della comunicazione e del sapere. Talora le parole assieme ai comportamenti possono favorire purtroppo il formarsi di compartimenti stagni all’interno di una organizzazione. A tuo parere, come le parole possono generare vasi comunicanti? Cosa bisognerebbe fare e cosa evitare?

Certamente le parole possono essere di grande aiuto, ma bisogna saperle utilizzare in modo corretto. Per utilizzare al meglio la parola, intesa in particolare come “voce” cioè come parola detta, è necessario concentrarsi sull’ascolto della parola stessa. Al riguardo, mi è capitato recentemente di analizzare cosa sta succedendo su Facebook. Secondo me, Facebook sta diventando sempre più un grande “catino” dove la gente parla e parla non sapendo però chi sta ascoltando: una specie di “sfogatoio”. La parola, intesa sempre come parola detta, ha senso solo quando c’è qualcuno che ascolta: direi addirittura che prima della parola è indispensabile avere la possibilità di un dialogo. È indubbio che le parole siano uno strumento utile, ad esempio, per migliorare certe situazioni o per scardinare luoghi comuni nella misura in cui ci si metta in ascolto così da capire quali siano poi le parole da utilizzare. In azienda e non solo è indispensabile capire bene chi ci sta dinnanzi: oggi avrebbe senso definire “dipendenti”? Usando questa espressione non si corre il rischio di creare uno scollamento? Intelligenza emotiva ed empatia possono essere di aiuto nel calibrare in modo corretto ciò che si può o non si può dire: non esistono parole giuste di per sé, ma devono essere “contestualizzate”. Penso che oggi lo sforzo necessario sia di trovare parole nuove in quanto quelle troppo spesso riportate e ripetute possono divenire un po’ “sospette”, come nel caso del cambiamento, parola oggi molto di moda. Ma il cambiamento va sempre bene o dipende da quale cambiamento? La storia avrebbe molto da dire al riguardo…

Nel libro Mimesis, Erich Auerbach ricorda che nel libro XIX dell’Odissea, nel momento drammatico del riconoscimento di Ulisse da parte dell’anziana nutrice Euriclea, Omero interrompe per ben più di 70 versi la tensione del momento, attraverso quel procedimento del “ritardare” che Goethe e Schiller ritengono propriamente epico in opposizione a quello tragico. Nel mondo in cui attualmente viviamo, e in particolare in quello del lavoro così accelerato e sempre più veloce, è possibile concederci dei “momenti di rallentamento”? Se sì, come dobbiamo viverli e come ci possono essere di aiuto? Infine, cosa diresti ad un giovane che ama una vita spericolata?

A differenza dei tempi di Omero, se oggi rallenti un racconto si corre il rischio di perdere l’attenzione del lettore. Lettura stessa de Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, opera in cui penso si trovi tutto quello che c’è da sapere sulla conoscenza della vita, con il suo ritmo fatto di lente e meditate riflessioni risulta oggi ai più faticosa, ma chi ci prova di certo si arricchirà. Se usciamo dai libri e ci accostiamo alla vita ritengo che il rallentamento sia importante, ma deve essere fatto “a monte”: trovare il modo per avere dei momenti di riflessione che aiutino ad esempio a capire chi si è e dove si vuole arrivare. Certamente in un mondo veloce ed accelerato come l’attuale è fondamentale gestire l’alternanza – espressione cara ad Italo Calvino – tra velocità e lentezza. A coloro che vogliono intraprendere un percorso di crescita nel campo delle comunicazioni suggerisco caldamente di non farsi mai prendere dal frettoloso turbinio del fare per raccogliere facili applausi: ho visto molte carriere distrutte perché non si è riflettuto a sufficienza su cosa bisognasse fare. Sono convinta infine che non si possa avere successo nelle professioni senza dedicare uno spazio della propria giornata alla riflessione: suggerisco la mattina presto.

Nella tua vita hai avuto l’opportunità di raccogliere e di “coltivare” gli insegnamenti di tanti maestri, da tuo padre Piero, partigiano già a diciannove anni nelle brigate “Garibaldi” a Gianni Vattimo, teorizzatore del “pensiero debole” e relatore alla tua tesi di laurea. Ritieni che sia importante avere oggi dei maestri? Se sì, chi possono essere e come si fa a divenire loro allievo? Può essere che questo ruolo sia oramai superato?

Ho sempre guardato al maestro come a una figura di riferimento, mai come ad una persona da seguire: meglio averne anche più di uno. Io sono stata affascinata da quella innovativa corrente di pensiero che Gianni Vattimo portava avanti e che si distingueva in quanto rompeva certe sicurezze date per scontate. I maestri possono poi essere anche degli scrittori che ci hanno lasciato un segno: anche attraverso la lettura di un libro possiamo trovare un maestro. Penso che la figura del maestro possa essere definita come quel “complesso di persone” che sviluppano un pensiero che risponde alle esigenze di ciascuno: noi ascoltiamo con attenzione ciò di cui abbiamo bisogno e lo facciamo poi nostro.

“Quando chiudiamo un libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo”, “La qualità di un racconto non dipende dalla storia in sé ma dal montaggio”: così scrivevano rispettivamente George Steiner e Iosif Brodskij. Tu – si può dire – sei cresciuta e vissuta tra i libri: quelli su cui hai studiato, quelli da te letti e quelli da te scritti. Quanto e perché i libri e la lettura possono essere importanti per coloro che ricoprono ruoli manageriali? Avresti qualche consiglio da suggerire o addirittura qualche autore da consigliare?

Ho l’impressione che molti manager non abbiano fatto un “percorso letterario” significativo: sono però convinta che quelli più bravi lo abbiano fatto. Ritengo che una formazione umanistica solida e profonda sia un bel “propellente” per riuscire a comprendere il mondo e la sua complessità ed essere quindi di aiuto al manager. Se si legge I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij si ha praticamente il tracciato di quello che bisognerebbe sapere della vita. Se si legge Macbeth di William Shakespeare si approfondiscono le dinamiche del potere. Se si vuol capire cos’è l’invidia basterebbe leggere La cugina Bette di Honoré de Balzac. Quanto più si va in profondità con la riflessione quanto più si riesce a comprendere la complessità che ci circonda: ci sono delle tematiche che lette in un libro, al di là della trama, ci fanno entrare nell’animo umano e quindi ci aiutano a conoscere quelli che ci stanno attorno. Questa riflessione mi porta a considerare la lettura, soprattutto quella di un classico, come un formidabile alleato. Certamente la scrittura di un tempo faceva sì che l’autore e quasi il suo travaglio intimo entrassero dentro l’animo del lettore: temo che oggi il computer porti ad andare un po’ più per le spicce.

Nel tuo ultimo libro “Non lo dire a nessuno” i personaggi principali appartengono ad una famiglia dell’alta borghesia industriale lombarda alcuni dei quali ricoprono posizioni di rilievo all’interno dell’azienda di famiglia e tu stessa hai lavorato in strutture organizzative complesse: la cultura manageriale non ti è quindi “estranea”. Al riguardo, quali ritieni siano oggi i tratti caratteristici della motivazione e della leadership, storici pilastri di questa cultura? Sono ancora dei pilastri? 

A mio parere una persona trova la motivazione, in questo caso al lavoro, se assume in sé la regola in base alla quale ciò che sta facendo non è legato ad un ordine dato dall’esterno ma, evitando la cosiddetta alienazione dei fini, è frutto delle proprie scelte. Si diviene così “imprenditori di sé stessi”: ci si impegna a fondo perché ciò che si fa non dipende ad esempio dalla possibilità di ricevere un riconoscimento ma dalla volontà e dalle azioni poste in essere dal singolo individuo. Se un manager ha questo atteggiamento è molto probabile che sia anche un leader in quanto l’essere imprenditori di sé stessi lo fa diventare una specie di capofila in cui gli altri trovano un esempio da seguire. Essere convinti di ciò che si fa – e ciò che si fa funziona – determina una forma di leadership naturale: senza andar lontani lo scriveva già Lucio Anneo Seneca nelle Lettere a Lucilio.