LE INTERVISTE DI B&P: GIULIANO MARELLI, IL CREATIVO DELLA MAGLIA
L’anno 2025 si apre con l’intervista a Giuliano Marelli, una novità assoluta nel panorama delle nostre interviste: il testo a seguire ne spiegherà il perché.
Giuliano Marelli grafico e Giusy apprendista in un atelier di maglia iniziarono la loro attività nel 1969 e, dopo aver presentato le loro creazioni nelle boutique di via Montenapoleone a Milano, realizzarono nel 1970 modelli per Biki con il loro marchio Gitricot. Ci furono poi diverse collaborazioni con importanti testate femminili sino a quando nel 1973 il gruppo inglese Coats propose a Giuliano Marelli di fondare il “Punto, Centro di Orientamento Moda” che per i successivi otto anni aprì un fortunato periodo professionale che portò, tra l’altro, alla nascita di testate come Brava e Milleidee. Nel 1981 iniziò la collaborazione con la Filatura di Grignasco durata una trentina d’anni che permise a Giuliano e Giusy di sfilare a Milano e Firenze e di partecipare alle più importanti fiere internazionali. In quegli anni, oltre alla pubblicazione di un paio di libri e alla partecipazione a Pitti Filati e alla commissione di studio tendenze moda, la famiglia si allargò e nacquero due figli. L’esperienza maturata in questo periodo e il successo di tante creazioni fecero sì che il Governo irlandese affidasse a Giuliano una ricerca sullo sviluppo della maglieria locale che portò alla affascinante scoperta dei Punti Aran.
Si aprirono poi collaborazioni con grandi aziende di maglieria industriale quali, ad esempio, Yves Saint Laurent Uomo, Anne Claire, Lanvin Uomo. Giuliano e Giusy aprirono poi il proprio atelier a Milano e collaborarono alla apertura dei primi Knit Café presso la Triennale a Milano. Giuliano ha inoltre insegnato maglia per una decina d’anni agli alunni/e del terzo anno del corso di laurea in Design della Moda presso il Politecnico di Milano.
È difficile e forse anche un po’ troppo frettoloso fare una sintesi di un percorso professionale particolarmente ricco e variegato: si perdono senz’altro tante sfumature ed episodi anche piccoli che però fanno la storia. La storia di un uomo che ha seguito con coerenza, impegno e fatica quello che sin da giovane sentiva essere la sua “scelta”. Da uomo intelligente è attento sì alle sfide tecnologiche ma i suoi riferimenti millenari passano dalla Mesopotamia, all’Egitto, dalla Tunisia, all’Europa: uomo dell’oggi con il cuore antico. Serietà, umiltà, indipendenza sono i suoi valori sicuramente preziosi anche per tante realtà aziendali; passione per il lavoro e attenzione ai giovani ciò che talvolta sembra mancare ai nostri manager. Possiamo dire che Giuliano, senza saperlo, ha anticipato a modo suo quella che è attualmente l’ultimissima moda della cultura manageriale: il purpose.
Per capire cosa sia l’opera di Giuliano ci è parso utile proporre la fotografia di una sua creazione, che riteniamo di rara bellezza, e che fa da sfondo all’intervista fatta nel suo atelier di Milano: grazie, caro amico del tempo che ci hai dedicato.
Ed ora spazio all’intervista.
Quando si parla di maglieria si va molto indietro nei secoli: si parte addirittura dal neolitico, passando poi per gli egiziani, i romani, il Medioevo, il Rinascimento, la rivoluzione industriale per arrivare ai giorni nostri in cui si parla di prodotti sostenibili e rispettosi dell’ambiente. Oggi viviamo in un mondo in cui non c’è solo l’intelligenza artificiale ma anche una crescente diffusione e un utilizzo di innovazioni tecnologiche in svariati settori. Ritieni che il mondo “secolare” della maglieria e quello delle nuove tecnologie si stiano muovendo su binari paralleli e quindi destinati a non incontrarsi oppure ci potranno essere dei “ponti” di collegamento e di confronto? Se sì quali potranno essere?
Ricordo innanzitutto che la maglieria nacque come lavorazione puramente manuale e lo fu per molti secoli. Nel secolo XIX nelle fabbriche francesi ed inglesi si iniziò a progettare i primi macchinari per arrivare ai giorni nostri dove tedeschi e giapponesi hanno fatto passi da giganti al punto che basta inserire una rocca e poi pigiare un bottone e dalla macchina, supportata da software molto sofisticati, esce una maglia fatta e finita, nella taglia e nel colore desiderati. Quindi accanto ad una maglieria dove si utilizzano i tradizionali classici ferri, facilmente sostituibili dalle macchine, esiste la maglieria basata sull’uncinetto, una modalità di lavorazione che ha una storia plurisecolare, non sostituibile da nessun tipo di macchinario. La cosa sorprendente e che mi colpisce profondamente è che i vari corsi di maglieria organizzati non solo da me vedono la presenza crescente di tanti giovani, di età spesso al di sotto dei vent’anni. Penso che questo ritorno di interesse per una tecnica di lavorazione artigianale legata alla più elementare concezione del “nodo” sottolinei che anche in un mondo sempre più tecnologico (e forse anche per questo) si sente la necessità di recuperare spazio ad una dimensione umana della propria vita. In questo i giovani rappresentano, come spesso accade, un’avanguardia preziosa e stimolante.
Tu hai insegnato per dieci anni presso il Politecnico di Milano agli alunni/e del terzo anno del corso di Laurea in Design della Moda, specializzazione maglieria, e al Corso di Alta Formazione in Design della Maglieria presso Poli Design. Ti sei mai sentito una specie di “simpatico intruso”? Quanto e in che modo l’insegnamento ha influito sulla tua crescita professionale? Lo rifaresti?
I colleghi del Politecnico mi hanno guardato, comprensibilmente, con curiosità: io non ero e non sono mai stato il “classico docente”: scrivevo (prima in corsivo e poi su richiesta degli studenti in stampatello) l’argomento della mia lezione con il gessetto sulla lavagna, facevo l’appello, pretendevo puntualità. L’inizio del mio corso era a dir poco scioccante: dopo la proiezione di un video in cui illustravo il percorso storico della maglieria (e fin qui tutto nella… norma) ecco arrivare il gomitolo e due ferri, strumenti con i quali cominciare a familiarizzare. Superato lo choc, vedevo crescere tra i miei studenti – non dimentichiamo che erano allievi del Politecnico di Milano, mondo di ingegneri e architetti – l’interesse per un mondo diverso, quello appunto della artigianalità: un interesse che li portava ad aspettare l’inizio della mia lezione anche seduti per terra, pur di esserci. L’insegnamento è stato molto importante per due motivi principali: ha costretto un creativo come me a consolidare e strutturare il proprio sapere e mi ha messo in contatto con una popolazione per me nuova, diversa e molto stimolante: al riguardo, mi sento molto in sintonia con Paul Valéry che diceva “Arricchiamoci delle reciproche differenze”.
Nella tua vita lavorativa avrai conosciuto senz’altro diverse persone dotate di una spiccata creatività. Si nasce creativi o si può anche diventarlo? Al di là del fatto che ci sono diverse modalità per sviluppare la creatività (quali ad esempio, la sinettica di Williams J.J. Gordon, i sei cappelli di Edward De Bono, il concassage di Michel Fustier) la tua esperienza cosa ci suggerisce al riguardo? Tu che “strada” hai seguito? A tuo parere la creatività può essere talvolta faticosa e stressante?
Penso che ci sia dentro ciascuno di noi un qualcosa che dia alla tua vita un indirizzo particolare. Al riguardo, faccio per un attimo un flashback della mia giovinezza. Io sono il classico autodidatta e prima di incontrare Giusy, che sarebbe diventata poi straordinaria compagna di vita e di lavoro, non ho avuto nessuno che mi insegnasse cosa fossero la maglia, la moda, l’abbigliamento. I miei genitori erano gente poverissima, mia madre faceva la mondariso, la casa dove abitavo non aveva l’acqua corrente. Ho avuto però la fortuna di abitare in un piccolo paese (Peschiera Borromeo) dove c’è il magnifico Castello dei Conti Borromeo: amico del nipotino del guardiano giocavo con lui e quando i conti erano a Milano, ci rincorrevamo tra stanze di una bellezza straordinaria, ricche di affreschi, marmi, dipinti. Ne dico una: saltavamo sul letto in cui dormiva, quando veniva a Peschiera, colui che divenne poi San Carlo Borromeo. Questo mondo così diverso da quello cui ero abituato mi ha talmente affascinato che molto probabilmente ha contribuito ad alimentare quella piccola scintilla di creatività che era dentro di me. Poi piano piano sono cresciuto e ho imparato l’armonia della forma, far quadrare il tutto in modo perfetto e via discorrendo. Ci dimentichiamo spesso di quanto possano incidere nella nostra vita le cosiddette sliding doors, come ben sanno gli scenografi cinematografici.
“La moda non è qualcosa che esiste sotto forma di abiti. La moda è nel cielo, nelle strade, la moda ha a che fare con le idee, il mondo in cui viviamo, ciò che accade” (Coco Chanel). L’incipit del tuo sito è “La maglia è cultura”. Le parole di Coco Chanel e le tue paiono sottolineare che, per coloro che lavorano o che intendono lavorare a vari livelli nella moda, è importante innanzitutto avere una “predisposizione culturale”. Quanto è però importante anche la capacità di coltivare i “saperi” specifici di questo mondo? Tu cosa ne pensi? Si può ritrovare in altri business questo mix di “cultura e saperi”?
Lavoro da una cinquantina d’anni con uncinetto e due ferri ma anche con macchine di maglieria e questo “allenamento quotidiano” si sposa non solo con il fatto di avere una predisposizione personale ma anche con lo studio, la ricerca continua e soprattutto con la passione. Ai miei studenti dicevo “la maglia è qualcosa che si deve amare. Se non avete dentro di voi questa passione è meglio lasciar perdere”. Lavorare infatti a maglia richiede tanto sacrificio ed impegno, anche perché non è sufficiente fare affidamento alla sola creatività: la maglia pretende di essere lavorata con le mani e non basta fare un bel disegno. Bisogna cioè essere in grado di realizzare in concreto quello che si è disegnato e valutarne il peso, il volume, la sensibilità al tatto. Si potrebbe dire che il lavoro a maglia è un mix di “pratica” (che è in ogni caso una conditio sine qua non) e di “studio” (ricerca, analisi di quello che il mondo della moda e delle sue tendenze). Ritengo che quello che vale per la lavorazione a maglia possa essere esteso ad altri settori caratterizzati da un alto livello di artigianalità creativa, come ad esempio oreficeria e pelletteria, in pratica con tutto ciò che si crea con le mani.
Tu eri un grafico, hai incontrato una giovane apprendista di maglia (Giusy), che non è solo diventata tua moglie ma anche la co-protagonista di un profondo legame affettivo e di un percorso professionale di grande successo. C’è il famoso detto “l’unione fa la forza” ma quale è stato per te l’innesco di questo percorso di successo? Quanto hanno pesato passione, voglia di apprendere, disponibilità di mettersi in gioco, umiltà nell’apprendere? Qual è il “segreto professionale” del team delle due “G” (Giuliano e Giusy)?
Io sono stato innanzitutto affascinato dal fatto che Giusy si vestiva in modo diverso dalle altre ragazze e non ero abituato a vedere una ragazza vestita di maglia. Per converso Giusy è stata affascinata da un giovane che, pur non avendo nulla aveva a che fare con il mondo della moda, una sera al telefono (!!) le suggerii di vestirsi di nero e rosa. Quindici giorni dopo ecco apparire Giusy vestita di nero e rosa: nacque così la nostra unione personale e professionale. Passione, curiosità, voglia di apprendere, l’umiltà di provare e riprovare, l’umiltà di sbagliare e ricominciare da capo: ecco cosa vuol dire lavorare a maglia. Ritengo che l’umiltà sia uno dei segreti del team delle “due G”, senza dimenticare il rispetto per tutti e per tutto e un certo grado di incoscienza, ad esempio l’incoscienza di una coppia di giovani un po’ sprovveduti che agli inizi degli anni ’70 in piena crisi del settore dell’aguglieria accettò di creare il Centro Orientamento Moda per la multinazionale inglese Coats. Come pure l’incoscienza che ti porta a fare anticamera per tre anni prima di essere accettati, per poi vivere l’emozione di vedere che i grandi nomi della moda erano positivamente sorpresi dalla possibilità di realizzare una maglieria che non faceva mai uso della forbice, strumento principe del sarto. Essere presenti sì nel mondo della moda, ma in disparte: questa è la filosofia delle “due G”. Professionalità, serietà, indipendenza, creatività al servizio di altri sono i nostri valori: in altre parole, una voce solitaria in una arena talora rumorosa e sempre molto affollata.
Nella tua vita professionale hai avuto molte soddisfazioni: hai lavorato per importanti aziende italiane e internazionali, collaborato non solo con grandi stilisti ma per due anni anche con il governo irlandese per lo sviluppo della maglia locale, hai insegnato presso il Politecnico di Milano e il Royal College of London, pubblicato libri e articoli, fatto crescere tante allieve/i. Qual è il riconoscimento a te più caro? Ti è rimasto un sogno nel cassetto?
Di recente un giovane allievo mi ha ringraziato via Whatsapp per la generosità con cui gli avevo trasferito il mio sapere. Mi ha fatto molto piacere ricevere questo apprezzamento perché è in assoluta sintonia con lo stile che mi è proprio, sempre disponibile ma riservato: lo stile in altre parole di chi non ama tenere i segreti per sé. Da poco l’Accademia di Belle Arti di Brera mi ha contattato per una possibile collaborazione, richiesta pare fatta anche a gran voce da diversi studenti. Da un lato ciò mi ha fatto molto piacere, ma dall’altro ha intimorito uno come me che ha la segreta passione per la pittura. Pittura e poesia hanno a mio parere diversi tratti in comune perché ti fanno “illustrare” qualcosa che è dentro di te. Mentre la maglieria era nei tempi lontani un’attività “al risparmio” (la mamma disfaceva il maglione al figlio maggiore per farne uno al fratello più piccolo), oggi sta diventando un hobby creativo. Al riguardo, penso che Giusy ed io abbiamo contribuito a questa evoluzione: ricordo, ad esempio, che sono state pubblicate sino a duemila pagine redazionali all’anno, con 300/400 modelli. E lo abbiamo fatto con passione, restando però sempre nella nostra amata ombra.
La domanda finale nelle interviste di B&P fa spesso riferimento ai giovani che sono – e non è certo retorica – il nostro futuro. Cosa consiglieresti ad un/una giovane che vuole entrare nel mondo della moda e della maglieria in particolare? Cosa, invece, sconsiglieresti?
Il primo e più importante consiglio che mi sento di dare è di cominciare dall’ABC, evitando di frequentare corsi troppo concentrati sulla teoria, che è sì importante, ma la pratica è insostituibile. Nel tempo ci si renderà conto che teoria e pratica si alimentano a vicenda e non dimentichiamo mai che le mani realizzano quello che il cervello ti indirizza a fare. Cosa sconsigliare? La presunzione, come suggerirebbe quello stilista “casa e chiesa” che fa di nome Giuliano Marelli.
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