LE INTERVISTE DI B&P: CAVALIER MARIO BOSELLI, PRESIDENTE DI ITALY CHINA COUNCIL FOUNDATION
Concludiamo le interviste del 2025 con il cavalier Mario Boselli, Presidente di Italy China Council Foundation.
Nato a Como nel 1941, coniugato, tre figli e sei nipoti (sparsi quest’ultimi per il mondo), Mario Boselli iniziò nel 1959 a lavorare nell’azienda tessile di famiglia e per oltre quattro decenni contribuì alla crescita della società in Italia ed all’estero. Dopo il 2005 ha ricoperto ruoli di primo piano in ambito economico, bancario e istituzionale tra cui la presidenza della Camera Nazionale della Moda Italiana (di cui è attualmente Presidente Onorario) e dell’Ente Fiera Milano, oltre a numerose posizioni apicali nel Gruppo Intesa Sanpaolo. Ha ricoperto il ruolo di Presidente di Federtessile, dell’Associazione internazionale della seta, di Pitti immagine. è stato inoltre insignito di prestigiose onorificenze italiane e straniere, quali il titolo di Cavaliere del Lavoro e di Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana ed ha ricevuto quella francese di Commandeur de la Légion d’Honneur. Un vero onore averlo tra i nostri intervistati.
Il rapporto che ci lega al cavalier Mario Boselli ha radici assai lontane, attorno alla metà circa degli anni ’80, e si è consolidato progressivamente, affinandosi nel corso degli anni come succede ai grandi vini rossi: un rapporto fatto di profonda reciproca stima e di quelle “affinità elettive” che connotano il comun sentire. Arrivare così ad organizzare l’intervista è stato molto semplice ed immediato: ci siamo visti nel suo ufficio di Milano, condividendo un buon caffè e dei cioccolatini.
Come sempre anticipiamo alcuni degli argomenti emersi nel corso dell’intervista, che ci paiono di particolare significato, quali:
- l’importanza dell’armonia dei rapporti e dei comportamenti all’interno delle strutture organizzative;
- il rapporto necessario e proficuo tra creatività ed innovazione;
- l’impegno, affascinante ma anche faticoso e stressante, di essere imprenditore.
Ci piace ricordare che il cavalier Boselli all’inizio dell’intervista ha fatto cenno, quasi a voler così presentare sé stesso, ad una espressione riportata nella poesia “Lo stivale” di Giuseppe Giusti che così recita “esser buono da bosco e da riviera”: essere, cioè, una persona semplice, disponibile e versatile. Una definizione non altisonante né roboante che però la dice lunga sullo stile di una persona che fa dell’intelligente umiltà il proprio modo di essere. Seguendo così la traccia indicata dal poeta Giusti siamo arrivati a proporre come leitmotiv grafico di questa intervista un dipinto di Claude Monet, che ritrae le ninfee del suo amato giardino a Giverny, piante semplici nella loro struttura, capaci però di generare cangianti effetti di luce e di colore. Con pennellate veloci e fluide Monet riesce a creare una sensazione unica di eleganza e leggerezza: anche in questo caso un esempio della forza dell’intelligente semplicità.
Ora come d’abitudine spazio all’intervista.
“La bellezza salverà il mondo”: così diceva il principe Lev Nikolaevic Miskin nell’Idiota di Dostoevskij. Questa frase, famosa e oggetto di tante riflessioni, non è solo una semplice affermazione sull’estetica ma è soprattutto un richiamo alla bellezza morale e spirituale che può fungere da catalizzatore per un positivo cambiamento nella vita di ciascuno di noi. Questa riflessione ad alto contenuto valoriale può essere proposta anche in un contesto aziendale? Se sì, come potrebbe essere declinata e vissuta?
Di questo tema è doveroso parlarne anche in azienda. Preferisco però usare il termine armonia, armonia cioè dei comportamenti, delle relazioni, dei contatti. Quando il 23 aprile 2020 in periodo di pieno Covid fui nominato Presidente dell’allora Fondazione Italia Cina trovai una situazione critica: non c’erano i soldi per pagare gli stipendi, le relazioni con il mondo esterno (in particolare ambasciatori, ministri) erano compromessi, i rapporti interni erano a dir poco pessimi (tutti contro tutti armati). “Lavorerò per ripristinare l’armonia”: questo fu uno dei punti cardine del discorso che tenni appena insediato. Fu un lavoro impegnativo, faticoso e lungo, portato poi a compimento con successo con l’impegno di tutti. Quale è stato uno dei segreti? Parlare con le persone, comunicare la volontà di cambiare ed essere coerenti nell’agire. Mi verrebbe quasi da dire che in certe situazioni di particolare criticità sia necessario costringere le persone a parlarsi tra di loro. Spesso si ritiene che ci siano dei problemi, poi parlandone ci si capisce e si riesce a risolverli, creando le basi per una relazione costruttiva.
Per tanti anni ed ancora oggi lei ha ricoperto prestigiosi ed importanti incarichi per i quali l’aspetto relazionale a vari livelli rappresenta un elemento fondamentale. A suo parere, da cosa è costituita la capacità relazionale? è frutto di un DNA familiare e/o personale o si può anche apprendere e affinare? E in futuro si potrà contare sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale?
Sono convinto che la famiglia giochi un ruolo fondamentale: relazioni familiari sane, trasparenti, severe se necessario in certe situazioni, sono la base su cui si costruisce una educazione rigorosa nella coerenza dei comportamenti ed equilibrata nei rimproveri come nei riconoscimenti. La “palestra relazionale” inizia quindi in famiglia e si arricchisce poi frequentando la scuola, dove si incontrano compagni simpatici e non, dove nascono gelosie e grandi amicizie, dove si impara a convivere con persone che non si è scelto, dove si è costretti a relazionarsi se non si vuole essere messi da parte. Poi il mondo del lavoro, dove questa dinamica relazionale si amplia sempre più indipendentemente, dal ruolo ricoperto o dal livello professionale: dall’operaio al dirigente affermato. Si tratta di un “affinamento” continuo, che non finisce mai, che richiede però un tratto distintivo, cioè quella elasticità mentale che ti permette di saper giocare in campi diversi e di adeguarti alle varie situazioni in cui ci si viene a trovare. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale sia la benvenuta se ci può essere di aiuto. Penso ad esempio – e parlo per esperienza personale dati i rapporti che ho da anni con il mondo cinese – al fatto di fare a meno dell’interprete (una futura vittima dell’AI) e di poter interagire in modo fluido con l’interlocutore che si ha di fronte, cogliendo l’espressione degli occhi, osservando i movimenti del viso, cogliendo il tono della voce, quasi “gustando” il dialogo senza l’angoscia di essere attento a seguire l’interprete. Viene così a cadere una barriera che abbiamo sempre avuto.
Possiamo dire che lei per motivi familiari e personali abbia vissuto da sempre nel mondo della moda, partendo dai filati e dai tessuti e ciò le ha consentito di conoscere a fondo creativi e stilisti di assoluto rilievo a livello internazionale. Secondo lei il loro lavoro trae origine unicamente dalla loro creatività e dalla loro cultura oppure è anche frutto di quel DNA che ha le sue radici in quei secoli in cui hanno vissuto – tanto per citarne alcuni – Giotto, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, Tiziano, Mantegna, Caravaggio, Brunelleschi, Canova, Bernini? Quanto è importante il retaggio di una “storia di qualità” anche per l’azienda e per le persone che vi lavorano?
Penso che il creativo debba avere dei cromosomi propri, a prescindere dagli studi fatti e dalle esperienze di lavoro: la creatività è insita nel suo DNA. Faccio al riguardo due esempi, uno “macro” ed uno “micro”, rispettivamente Giorgio Armani e mio figlio Federico. Il primo ha iniziato a lavorare come vetrinista dopo aver frequentato per tre anni il corso di laurea in medicina ed ha sempre avuto quello straordinario senso estetico che lo ha caratterizzato nel corso della sua vita: tutti noi conosciamo la sua eccezionale storia di imprenditore prima che di stilista. Mio figlio Federico, ingegnere gestionale, dirige la società Luxury Jersey che lo vede impegnato non solo nella guida dell’azienda ma anche e soprattutto nella messa a punto e realizzazione delle varie collezioni: Federico esprime una sorta di creatività tecnologica che molto probabilmente affonda le radici nella storia tessile secolare della famiglia Boselli. Per quanto riguarda il mondo della moda, in particolare la fascia alta del prêt-à-porter, vorrei ricordare che le società di grande successo – fatta eccezione per Giorgio Armani che ha saputo mirabilmente coniugare creatività con imprenditorialità – hanno al loro vertice due figure: il creativo ed il gestionale e dall’equilibrio del loro rapporto nasce il successo dell’azienda. Per concludere, vorrei sottolineare che è sì importante per una azienda avere alle spalle una “storia di qualità” nella misura in cui però questa storia sia alimentata costantemente dalla passione per l’innovazione: creatività ed innovazione sono strettamente interconnesse.
“Ex praeterito praesens prudenter agit ni futuram actionem deturpet” (sulla base del passato, il presente agisce prudentemente per non guastare l’azione futura): questa frase è riportata nel quadro di Tiziano dal titolo “Allegoria della prudenza” (1565-1570). Nel mondo odierno così veloce, accelerato e tecnologicamente sempre all’avanguardia citare l’importanza del passato e della prudenza potrebbe apparire “stonato” e fuori luogo. La storia sua e della sua famiglia è un intreccio raro e di successo tra un passato plurisecolare e un presente che guarda a quanto si è seminato per il futuro (vivere nel mondo della moda è guardare sempre al domani). Al riguardo cosa suggerirebbe ad un manager che affronta quotidianamente la complessità di gestire strutture organizzative e persone? E ai giovani quale messaggio si sente di trasferire?
Penso di non essere un gran bell’esempio di prudenza perché nella mia vita imprenditoriale ho fatto delle cose abbastanza “osé”, prendendo talora qualche rischio di troppo. Ricordo di aver avuto dei dirigenti che mi frenavano, opportunamente. L’imprenditore per sua natura è portato a correre, sviluppare, costruire: a volte quando agisci con grande energia ed entusiasmo dimentichi di rispettare le regole della prudenza. Devo ammetterlo a volte sono stato imprudente, anche se è facile dirlo ex post: non rinnego in ogni caso il passato e devo riconoscere che alla fin fine mi sono anche divertito. Il limite che non deve essere superato è quello dell’incoscienza: l’imprenditore non deve mai dimenticare la responsabilità che ha nei confronti dell’Azienda (con la A maiuscola), in particolare nei confronti dei dipendenti e di eventuali soci. Le esperienze contano? Sino ad un certo punto perché in un mondo che cambia così vorticosamente risulta sempre meno valido il riferimento al passato, anche glorioso. Regole di comportamento e valori possono, anzi, devono durare nel tempo, ma non è detto che in questa realtà fluida per citare Bauman le chiavi del successo del passato restino le stesse.
Nel corso della sua vita lei ha avuto modo di conoscere tantissimi manager e imprenditori, e lei stesso lo è. Nel prossimo futuro quali potranno essere le caratteristiche professionali e personali distintive di queste due figure? Prevede a questo riguardo cambiamenti profondi o c’è da aspettarsi una specie di “adeguamento progressivo alla realtà che cambia”, in cui gli elementi costitutivi sono più o meno sempre gli stessi e cambiano solo le priorità?
Quando ero Presidente dell’AIDAF (Associazione italiana delle aziende familiari) uno dei temi spesso dibattuti riguardava la continuità aziendale. Si è visto nel tempo che dare responsabilità alle generazioni successive non è una cosa buona se mancano le capacità professionali e personali per gestire con successo l’azienda. Non a caso in alcune aziende sono state stabilite delle regole perché membri del nucleo familiare potessero ricoprire incarichi direttivi. Laddove non si trovi la soluzione all’interno della famiglia è necessario ricorrere ad un manager proveniente dall’esterno: un manager (Amministratore Delegato o Direttore Generale) che deve così svolgere un ruolo che racchiude in sé anche delle “competenze di natura imprenditoriale”. In questi casi il confine tra manager ed imprenditore si stempera sin quasi a scomparire: di fatto il manager svolge una funzione vicaria, divenendo “creatore di un ponte tra due (talora più) generazioni”. Al riguardo mi permetterei di dare un paio di consigli: è importate prendere tempo per non farsi trovare impreparati al verificarsi di un determinato evento o situazione. Non solo, occorre che accanto all’“uomo giusto” siano messe a disposizione le necessarie risorse finanziarie al fine di assicurare una sana continuità, senza correre rischi. Avere “un po’ di fieno in cascina” non guasta, anzi è necessario.
Al centro di questa domanda c’è un sostantivo che ha contribuito a caratterizzare la sua storia e il suo vissuto: eleganza. Per lo più si tende a collegare l’eleganza a tutto ciò che circonda direttamente o indirettamente il mondo della moda, anche se ci sono anche dei riferimenti diversi (“La morte è solo un ostacolo da superare, se possibile, con eleganza per essere proiettati nel regno di Dio”, Carlo Maria Martini, cardinale di Milano dal 1979 al 2002). Può aver senso parlare di eleganza in un’azienda? Se sì, come sarebbe caratterizzata questa eleganza? L’eleganza è terreno esclusivo delle persone o è un qualcosa di più diffuso all’interno dell’azienda?
Sarò sintetico nella risposta. Quando mi chiedono cosa vuol dire eleganza e me lo si chiede per lo più facendo riferimento al settore dell’abbigliamento-moda io replico: per me l’eleganza è essere vestiti in armonia e a proprio agio con sé stessi e ciò contribuisce a fa sì che anche gli altri possano esserlo. Io ho una certa età, sono cresciuto e sono stato educato in un certo modo, ho le mie abitudini e mi rendo conto che al giorno d’oggi l’essere formalmente eleganti sia nel mondo del lavoro sia più in generale nella vita quotidiana è sempre più un tratto raro, forse più nell’aspetto estetico e comportamentale che non nella sostanza. Io stesso ad esempio nel week end vesto in modo informale ma in realtà la maggioranza delle persone lo fa tutti i giorni, quindi senza indossare la cravatta.
“È proprio vero che il difficile non è vivere con gli altri, il difficile è comprenderli”: questa frase tratta dal libro “Cecità” di Josè Saramago (1922-2010, premio Nobel per la letteratura nel 1998) ci introduce nella settima e ultima domanda che riguarda la valutazione delle persone. Nella sua carriera lei ha selezionato diversi manager e collaboratori: nel far ciò cosa ha preso in considerazione? Dove si sbaglia più facilmente? Cosa bisogna evitare?
Penso che nel valutare la prestazione dei propri collaboratori sia necessario in primis partire dai numeri e prendere in considerazione i risultati raggiunti. è poi imprescindibile ascoltare e parlare con i propri collaboratori in modo diretto e trasparente, commentando sia i risultati raggiunti in modo brillante sia gli insuccessi, avendo come obiettivo quello di essere proiettati sempre e comunque a migliorare. Un errore da evitare nel processo di selezione è quello di “innamorarsi” più della forma (l’apparire) che della sostanza (i contenuti), evitando di cadere nella trappola della persona charmant. Un “antidoto” che può essere di aiuto nel percorso di approfondimento di un candidato è quello di organizzare più incontri in situazioni diverse: quante cose si apprendono davanti ad un piatto fumante di spaghetti accompagnato da un buon bicchiere di vino…Infine potrebbe essere utile provare a mettersi nei panni di un sottoposto e cogliere le sensazioni che ne derivano.

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