Le interviste di B&P: professor Nicola Dioguardi
Con l’intervista al professor Nicola Dioguardi inauguriamo all’interno dell’ Angolo della riflessione la rubrica “Le interviste di B&P”.
La caratteristica peculiare di queste interviste consiste nella “tipologia” delle persone coinvolte, i cui percorsi professionali e personali – pur non rientrando nei canoni tradizionali della cultura manageriale , essendone anzi spesso addirittura assai lontani – hanno loro consentito di suggerire innovative chiavi di lettura e profonde riflessioni.
Il professore Nicola Dioguardi – classe 1921, epatologo di fama mondiale, direttore scientifico emerito dell’ospedale Humanitas di Rozzano (Mi), nonché medaglia d’oro nel 1949 ai campionati del mondo di scherma a Parigi – ha accettato con grande disponibilità ed impegno di essere così da “apripista”.
Questa intervista si è articolata in tre momenti di progressivo approfondimento: il primo presso lo studio del professor Dioguardi in Humanitas, il secondo iniziato in Humanitas e proseguito poi in una trattoria milanese, il terzo ed ultimo presso gli uffici della Boniardi & Partners: un percorso rigoroso nei contenuti, come è giusto che sia, e nel contempo gradevole sotto il profilo umano.
Al riguardo, ci piace poter anticipare alcuni spunti di riflessione – che il lettore potrà approfondire nel corpo dell’intervista – da noi ritenuti interessanti per la loro autenticità ed originali per come sono stati proposti.
Innanzitutto il ruolo di maestro che dovrebbe ritornare ad essere al centro dell’essere manager: colui cioè che è visto come punto di riferimento per i comportamenti organizzativi, che infiamma i propri collaboratori, che sa adattarsi alle caratteristiche di ciascuno, capace di insegnare più cultura che prassi. Non è casuale che l’intervista si apra con il famoso affresco della Scuola di Atene di Raffaello Sanzio, al cui centro primeggiano le figure di due straordinari maestri, quali Platone – a cui il professor Dioguardi è particolarmente affezionato – e Aristotele.
In secondo luogo la motivazione che non è un “attributo” a quello che uno fa, ma è un sentimento (espressione quest’ultima sconosciuta nel lessico manageriale tradizionale), che accompagna tutto ciò che uno fa come individuo o nel rapporto con una o più persone.
In terzo luogo la lealtà come elemento costitutivo della relazione tra capo e collaboratore e del loro rapporto di reciproca fiducia.
Infine l’evoluzione professionale di una persona legata moltissimo alla propensione nei confronti del futuro, senza trascurare di valorizzare i contenuti delle esperienze passate.
Lasciamo ora spazio all’intervista con il professor Nicola Dioguardi.
Il ruolo di “maestro” che i manager dovrebbero svolgere in azienda si è perso nel tempo, travolti dall’affanno delle urgenze e dalla dichiarata incompatibilità con i ritmi incalzanti dettati dall’attesa di risultati immediati. Secondo lei quali sono le caratteristiche che dovrebbe avere oggi un maestro? Come fa il maestro a trasferire e sviluppare conoscenza e competenza di qualità? Lei cosa suggerirebbe?
Il ruolo del maestro è riferibile sia ai comportamenti sia alla “mente” e deve essere vissuto con un razionale in chiave dinamica intesa come adattamento a programmi e al tipo di scuola, e mai statico che è come dire standardizzato. Al riguardo, ci sono diverse tipologie di maestro. Colui che racconta quello che deve insegnare è uno scarso maestro; quello che illumina ciò che racconta è invece un buon maestro. Vi è poi il maestro che deduce da ciò che racconta e insegna in base alla deduzione: questo è un ottimo maestro. Ma il vero maestro è quello che infiamma i propri allievi, che sono fuochi da accendere e non bicchieri vuoti da riempire di un qualche sapere. Il maestro non semplicizza i problemi, riducendoli cioè a narrazione, ma li semplifica, andando alla loro profonda sostanza e rendendo comprensibili le cose difficili, privilegiando il procedimento razionale discorsivo (la dianoia della filosofia greca, di Hobbes, di Kant) all’evidenza intuitiva empirica. Nella mia carriera universitaria mi sono sforzato di insegnare soprattutto a ragionare di materia medica più che a far di conto, anche se far di conto è importante. Il mio compito non era tanto insegnare cosa fosse – ad esempio – la polmonite (questo i testi lo fanno già bene) ma spiegare cosa fossero le sue complicanze, quelle che Aristotele definiva “accidenti”.
Dubium sapientiae initium” scriveva René Descartes . Il dubbio ha ancora un suo “valore intrinseco” di stimolo alla riflessione e alla ricerca? Il “ritmo del dubbio” è compatibile con la velocità del nostro vivere?
L’unica cosa certa nel continente della ricerca è il dubbio. Esso è la prima fase di ogni ricerca, è appartenente alla riflessione ed alla visione fantastica del mondo delle idee. La fantasia, scintilla indispensabile in ogni area del sapere, é sempre più indispensabile, alla scienza dell’occidente alle prese con la epistemologia della complessità e la necessità di semplificazione. Il dubbio è faticoso perché genera uno stato di incertezza soggettivo in chi lo vive (l’osservatore) e oggettivo per la cosa osservata in sé. Va aggiunto che il dubbio costa – come pure il nuovo – e procede con i propri ritmi. Si va configurando una forte critica sulle spiegazioni preconfezionate dei dati ricavati dall’attuale ricerca dell’Occidente le cui radici affondano nella statica, ramo della fisica, costruita per valutare oggetti immobili, usata per misurare la materia del nostro universo eternamente in moto. Non esiste una “ricetta preconfezionata” per rendere compatibile la relazione tra la velocità dell’azione e il dubbio della riflessione che vede la dipendenza da un lato dalle situazioni specifiche, dall’altro dalla volontà e dall’intelligenza dell’uomo. In breve può essere sempre considerata indipendente da ogni altra interpretazione, la presa di coscienza che sia l’argomento sia il dubbio hanno dignità per essere oggetti di osservazione e ricerca.
Nelle aziende come pure nella vita quotidiana sembra oggi prevalere il “carpe diem” rispetto alla proiezione verso il futuro. Lei ha unito nella sua carriera la pazienza del ricercatore alla urgenza della corsia, la curiosità della sperimentazione alla fatica quotidiana di affrontare la malattia: questi due “piani” sono compatibili all’interno di un’organizzazione? Lei cosa suggerirebbe?
Purtroppo anche la ricerca, così come concepita dalla cultura scientifica dell’Occidente, è impostata sulla descrizione i cui fondamenti teorici affondano nella concettualità della statica dell’attuale, che non fornisce alcun suggerimento su ciò che può essere l’eventuale evoluzione della scoperta fatta. Galileo sosteneva che compito fondamentale delle scienze matematiche fosse la “predittività”, cioè la possibilità di predizione, essenza stessa della ricerca scientifica. La descrizione statica ha bisogno al massimo di un controllo di ciò che si è visto o scoperto, ma non genera condizioni per accrescere il sapere. Ciò detto, attenzione al presente e sguardo al futuro sono entrambi indispensabili e richiedono una buona interconnessione reciproca, altrimenti il ruolo del medico si ridurrebbe ad esempio a mero dispensatore di programmi terapeutici preconfezionati utili al ricercatore caccia di impact factor.
Primo Levi diceva che il “futuro ha un cuore antico”: quale è secondo lei il peso della “storia” e del “passato” nella carriera di una persona? Lei come ha vissuto questa “contrapposizione” (o conflittualità?) tra l’importanza di consolidare le esperienze acquisite e la ricerca di nuove frontiere?
E’ da sempre assai solida l’abitudine di prevedere il futuro sulla base del passato. Leibniz usò il termine “futurizione”, espressione che mi piace da morire, per definire la determinazione degli avvenimenti futuri. La scolastica attribuiva la proprietà della prevedibilità solo a Dio e alla sua percezione infallibile. Nell’evoluzione professionale di una persona conta moltissimo la propensione nei confronti del futuro. L’atteggiamento mentale dinamico costa molto in impegno e fatica mentale, in quanto ha in sé più valore rispetto alla staticità delle esperienze passate. E’ difficile stabilire se esso sia elemento di spinta al progresso o di ostacolo epistemologico (secondo la definizione di Gaston Bachelard).
Anni addietro, leggendo il libro dell’economista statunitense Edward Hastings Chamberlin (The theory of monopolistic competition), ricordo di essere stato colpito dall’espressione “faraonismo elettronico”: l’autore incolpava il fallimento di alcune grandi aziende industriali statunitensi al fatto di aver affidato al computer ciò che la mente umana poteva tranquillamente affrontare e risolvere. E questo è ciò che anche oggi accade, travolti spesso da un eccesso di utilizzo delle tecnologie. Il futuro non ha quindi solo cuore antico, ma anche in testa riferimenti al passato con tutti i rischi di diventare, secondo Werner Karl Heisenberg, un ostacolo epistemologico per il progresso.
La motivazione sul lavoro è da decenni al centro degli studi manageriali. Oggi come si può alimentare e sviluppare? Lei come ha motivato e motiva suoi collaboratori? Quali sono il significato ed il peso della ricompensa? Il potenziale dinamico ovvero la capacità di cambiamento è una caratteristica esclusivamente dei giovani oppure l’età non conta?
Motivazione vuol dire avere una finalità che può definirsi la sua causa, uno scopo che non riguarda solo il lavoro, ma tutto ciò che un individuo fa, preso come singolo o nel rapporto con una o più persone. E’ una proprietà intesa come sentimento che ci accompagna nella nostra vita e la caratterizza. Come il concetto di moto non è semplice attributo del concetto di materia ma è una sua caratteristica esistenziale come la massa e l’inerzia, lo stato solido, liquido, gassoso. Per me oggi anche di più di un sentimento, è ciò che mi distrae e mi stimola a “divertirmi” ancora, nonostante sia del… 1921. E così le ho risposto indirettamente anche sul tema del potenziale dinamico che non è un attributo esclusivo della giovinezza ma una caratteristica dell’uomo in sé, che varia nel corso delle sue stagioni anagrafiche ma che fa parte di un essere umano ed è sempre presente. La capacità di cambiare lo stato di moto della materia è fondamento che la fisica ha identificato nei tre principi della termodinamica: la capacità di cambiamento dello stato di moto (la dinamica) è la vita.
Dovendo selezionare da un lato un giovane medico e dall’altro un giovane ricercatore a cosa guarderebbe? Quali sono le grandi differenze tra i due profili?
La lealtà è l’aspetto fondamentale che cerco di individuare nella scelta di un collaboratore sia esso clinico o ricercatore. La persona leale ha da un lato la forza e la coscienza di dire “io non sono capace di fare una cosa”, frase assai difficile a dirsi, dall’altro la volontà e l’energia di rimboccarsi le maniche. La lealtà viene prima dell’intelligenza, intesa non tanto facoltà mentale ma soprattutto come capacità di comprendere (intelligere): una persona leale, anche se non è un genio, riesce a far rendere ed a valorizzare ciò gli viene affidato. Quando non sa o non capisce, pone domande.
La lealtà viene quindi anche prima della cultura: la persona leale ha voglia di apprendere, di chiedere se non capisce, di collaborare, cioè di fare cioè un lavoro assieme (cum laborare). Oggi purtroppo nella considerazione del mondo lealtà è sinonimo di…… fesseria, termine poco accademico, ma molto espressivo.
Le differenze tra i due profili (medico e ricercatore) sono legate al tipo di interessi e di passione dei singoli: in questo caso nessuno è miglior giudice di sé stesso. Il processo di selezione può così essere visto come un percorso maieutico, durante il quale far emergere progressivamente le motivazione di fondo di ciascuno. Infine vorrei ricordare che è l’allievo che va a ricercare il maestro e non viceversa e che è il maestro che deve adattarsi alle caratteristiche dei propri allievi.
La successione generazionale è da sempre un tema di grande delicatezza all’interno delle aziende familiari. Quali sono secondo lei i passi e le modalità per gestire al meglio questo momento? Ma è possibile succedere ad un maestro?
La successione generazionale riguarda le persone che, come le impronte digitali, sono diverse le une dalle altre: questa considerazione semplice, quasi banale, viene spesso dimenticata. La complessità risiede in particolare nella difficoltà di definire i parametri di valutazione connessi al percorso successorio, che sono soprattutto soggettivi. Ad esempio, un conto è aver a che fare con un allievo che basa il suo razionale sulle intuizioni piuttosto che sulle deduzioni: sono le diverse condizioni di partenza che determinano i comportamenti. La persona induttiva ha la capacità di fruttificare ciò che riceve trasformandolo in parole ed in azioni quotidiane, mentre la persona deduttiva “funziona” solo se quello che ha in quel momento è in linea con il precedente. In ogni caso il successore, chiunque esso sia, non può ignorare la grandezza della persona a cui deve succedere.
Aprile 2015
Comments are closed.