Le interviste di B&P: professor Giuseppe De Rita, presidente del Censis
All’interno dell’Angolo della riflessione accogliamo il contributo e le riflessioni del professor Giuseppe De Rita, presidente del CENSIS.
Nato a Roma nel 1932, laureato in Giurisprudenza nel 1954, dopo un’iniziale esperienza in SVIMEZ di cui fu responsabile della sezione sociologica dal 1958 al 1963, nel 1964 fu tra i fondatori del CENSIS (Centro studi investimenti sociali), di cui è diventato segretario generale ed attualmente presidente. Tra il 1989 e il 2000 è stato presidente del CNEL. Svolge un’intensa attività di pubblicista ed è voce autorevole nei dibattiti sulle condizioni e sulle linee di sviluppo della società italiana.
Il nome di Giuseppe De Rita è legato soprattutto all’attività del CENSIS, che sotto la sua guida è divenuto un punto di rilievo assoluto nell’interpretare i mutamenti economico-sociali, di mentalità e di costume dell’Italia degli ultimi trent’anni: argomenti e temi che riteniamo vitali per coloro che operano nel campo del management e della cultura di impresa.
Abbiamo così preso carta e penna – come si faceva ai…vecchi tempi – e gli abbiamo scritto, chiedendogli se avesse piacere di essere intervistato, diventando così parte delle “voci” di B&P. La risposta è stata rapida e positiva e ci siamo quindi incontrati presso la sede del CENSIS in piazza Novella a Roma.
L’intervista è così ricca di spunti e di riflessioni, che rincresce provare a farne una sintesi.
Ci piace però anticipare ai lettori alcuni argomenti, quali, in particolare, il concetto di lavoro “molecolare”, il fatto che le realtà organizzative siano degli “impasti sociali”, l’importanza della “cultura del processo” a scapito della “cultura del compito”, il non temere la diffusione dei computer e delle tecnologie ma la l’inerzia del troppo tempo libero, sempre meno ricco di significato.
De Rita non guarda solo alla società nelle sue articolazioni, ma anche all’uomo (il muratore cui farà riferimento sul finire dell’intervista) il cui agire s’inquadra in un disegno superiore, ricco di significati e di orizzonti che vanno ben oltre l’esistenza terrena. Ed è per questo che l’intervista si apre con la Creazione dell’uomo di Marc Chagall, la prima delle sue diciassette tele di argomento biblico. In questo dipinto il rapporto tra Adamo e Dio sembra quasi emergere da quel vortice di arcobaleno e sole, piuttosto che dalla rappresentazione stessa di Adamo nelle braccia dell’angelo espressione del Creatore: la luminosità che l’artista riesce ad esprimere attraverso i colori (in particolare il giallo raggiante e l’azzurro) sembra quasi sottolineare il significato profondo dell’esistenza umana e della sua dimensione spirituale.
Veniamo ora all’intervista.
Ulrich Beck, sociologo tedesco scomparso nel gennaio del 2015, nel suo libro “La società del rischio” (1986) afferma che la società moderna non soffre delle sue sconfitte ma della sue vittorie (ad esempio il miglioramento della produttività ha comportato minore occupazione e la crescita dell’aspettativa di vita ha messo in crisi consolidati sistemi di welfare). Non solo, ma modalità di lavoro sempre più flessibili e decentrate creano una generalizzazione delle insicurezze occupazionali. A distanza di quasi 30 anni, bisogna riconoscere che le parole di questo sociologo sono di drammatica quotidianità. Lei cosa suggerirebbe per ridare vigore e significato al concetto di lavoro, sì al centro della nostra Carta Costituzionale (artt. 1 e 4), ma soffocato dall’attenzione esasperata ai costi (soprattutto del personale) e alle logiche del breve termine?
La moltiplicazione del lavoro indipendente, dei lavori artigianali, del lavoro autonomo in varie forme ha diminuito da un lato il peso sociale del lavoro dipendente, dall’altro però ha ridotto l’immagine e l’identità collettiva: tante piccole imprese e tanti singoli lavoratori.
La vera crisi del lavoro non deriva tanto dalla diminuzione dell’importanza del lavoro organizzato e collettivamente sentito ed interpretato ma dal modo in cui viene esercitato: oggi è “molecolare”. Il lavoro si moltiplica così in tanti lavori e non ha più la sostanza del lavoro in sé: in Italia ad esempio si continua a lavorare molto ma il valore del lavoro è individualizzato e non ha rilevanza collettiva. Sebbene io sia il “cantore del lavoro molecolare” non sono sicuro che durerà a lungo: forme di aggregazione saranno in prospettiva necessarie e si potrebbe ipotizzare una specie di aggregazione di filiera. Una filiera non di “simili” ma di persone che fanno cose diverse: il lavoratore molecolare che sviluppa delle “app” non andrà in filiera con un suo simile ma al limite con un esperto di finanza o meglio ancora con chi gli crea delle occasioni di business. Ci si trova così di fronte non al lavoro ma a tanti lavori, a cui fanno da corollario compensazioni degli interessi e delle identità dei lavoratori in forme totalmente diverse ed erratiche, ma funzionali con chi si trova a valle o a monte della filiera. Questo meccanismo riduce di molto i valori storici del lavoro quali ad esempio gli interessi (salario, orari, sicurezza) e l’identità (operaio, quadro, capo).
Ritengo che la parte più consapevole del mondo aziendale sia da un lato conscia di questi scenari di cambiamento, dall’altro si trovi però di fronte a due “criticità culturali”. In primis, c’è la tendenza, comprensibile ma nel contempo pericolosa, di restare ancorati a schemi concettuali tradizionali e “confortevoli”, quasi esasperandoli, e di trasferire all’esterno l’idea di sicurezza e di forza dinnanzi alle turbolenze del cambiamento. In secondo luogo c’è il rischio di divenire prigionieri della tecnologia, la quale determina e talora impone le caratteristiche dei profili professionali e delle competenze delle persone da inserire in azienda oltre all’assetto delle strutture organizzative.
Nell’intervista apparsa sull’inserto “La Lettura” del Corriere della Sera del 13 settembre 2015, l’economista Robert Reich nel criticare alcune caratteristiche del capitalismo americano citava Edward Ryan, presidente della Corte Suprema del Wisconsin, che rivolgendosi nel 1873 agli universitari del proprio Stato, così si domandava: “Un giorno dovranno pur chiederci chi deve decidere: la ricchezza o l’uomo? Chi deve guidare: il denaro o l’intelletto?” A queste domande, Lei cosa risponderebbe? E che suggerimenti darebbe al mondo aziendale e finanziario italiano?
La mia prima risposta a caldo è che dovremo convivere a lungo con questo dilemma, per due ordini di motivi.
In primo luogo non dobbiamo dimenticare che noi veniamo dalla fame ed in un mondo che è stato povero e lo è ancora in molte sue parti la ricchezza è una specie di mito. Guardiamo ad esempio all’ Italia di oggi: si risparmia tanto e su tutto. E questa è la reazione dettata dalla paura di chi è stato povero: ci vorranno almeno due generazioni per cambiare. D’altra parte bisogna riconoscere che per buona parte del mondo l’agiatezza e il “quattrino” sono considerati importanti. Mio padre lavorava in banca come cassiere, prima di rientrare a casa per cena andava da alcuni imprenditori a cui teneva la contabilità e dopo cena andava a lavorare per una casa discografica. Ciò gli ha consentito di comprare casa all’età di 65 anni e questo acquisto è stato importantissimo per lui. Oggi la società molecolare ha anch’essa bisogno dell’alimentazione della ricchezza individuale.
In secondo luogo la ricchezza dà una libertà al singolo ed una auto-sicurezza che sono rilevanti per coloro che vivono in una società molecolare ad alta soggettività. Non bisogna dimenticare infatti che in questa società molecolare la “molecola” tende a dare esaltazione ai propri stati emotivi, quali la paura e le preoccupazioni.
Per quanto poi riguarda la finanza che si legge sui quotidiani tendo a distinguere la finanza quale strumento strategico per la competitività e lo sviluppo del business dalla finanza intesa e vissuta come contesa tra i singoli (ad esempio soci o azionisti), quasi come ai tempi degli Orazi e dei Curiazi. Vedo purtroppo che la dimensione di “contesa personale” sta invadendo altri mondi, quello politico in particolare.
La cultura manageriale di fronte a complessità crescenti e situazioni imprevedibili o di difficile interpretazione tende a dare spesso risposte basate più su “contrapposizioni” che sulla ricerca di un “approccio sinergico”. Così la finanza quantitativa versus la finanza qualitativa, così la forza dell’algoritmo versus la meditazione del pensiero, così ancora la cultura scientifica versus quella classica. Sembrerebbe quasi che non ci sia più traccia di… Galileo Galilei. Lei cosa pensa al riguardo? Una cultura di impresa “una e indivisibile” potrebbe soffocare a, Suo parere, le spinte all’ innovazione e alla creatività?
Ragionare per estremi è storicamente una caratteristica tipica dello stato nascente: al suo interno vi sono infatti forti contrasti e contrapposizioni. In un momento di trasformazione sociale, come l’attuale, è quindi quasi fisiologico che si continui a ragionare per posizioni contrapposte: alla fine non vincerà nessuno perché “ci si impasta nel quotidiano”. E’ un’illusione di molti commentatori e professori ritenere che si debba scegliere ad esempio tra finanza qualitativa e quantitativa oppure tra sviluppo e decadenza. Negli ultimi quattro anni si riteneva che il nostro paese fosse in decadenza, quasi in caduta libera, invece si è sviluppato un cambiamento di modello: è arrivata la sobrietà e si è posto fine ad un consumismo spesso ignobile e sfrenato. Benedetto Croce ricordava che l’identità di un popolo non è altro che la sua storia. Fare storia è “impastare” continuamente ad esempio comportamenti, idee, emozioni, stati d’animo, tensioni. Non a caso nel 2012 avevo coniato l’immagine dell’Italia come di una betoniera, di un paese cioè che procede secondo processi lunghi, faticosi, e di non sempre facile lettura piuttosto che attraverso percorsi netti e definiti. Ancor oggi la famiglia è una sorta di impasto di sicurezza finanziaria e di ovattazione emotiva.
Il merito è stato ultimamente un tema al centro di molti interventi, sebbene si tratti di un argomento che storicamente in Italia non piace più di tanto. Se ne è parlato molto relativamente alla cosiddetta “Buona Scuola”, forse a scapito di aspetti ben più importanti quali i contenuti dell’insegnamento, la didattica e la formazione dei docenti. Nelle aziende performance management e merito sono argomenti da tempo noti, anche se spesso affrontati in modo frettoloso. Guardando al futuro come ritiene che le aziende debbano considerare il merito nel contesto aziendale 2020? Quali dovranno essere i parametri su cui basare la valutazione e quali i criteri di misurazione? Sarà più rilevante il merito del singolo individuo o del gruppo?
Per me valutazione e merito sono temi… sensibili. Nella scuola italiana poi non si può dire che abbiano una storia preclara. Nel 1991 l’allora ministro della Pubblica Istruzione Sergio Mattarella, attuale Presidente della Repubblica italiana, organizzò un convegno che doveva trattare due argomenti importanti e tra di loro interconnessi: l’autonomia scolastica e la valutazione dei docenti. Sabino Cassese trattò il primo, io il secondo. Cosa si può dire dopo quasi un quarto di secolo? Una tragedia. Per un motivo semplice: la valutazione in particolare è un tema incredibilmente complicato, anche per colpa del…corpo docenti. Tanti sono i punti interrogativi: di chi è il merito? del singolo? del preside? del sistema? E poi come si misura? Penso che questi punti interrogativi possano essere trasferiti anche nel contesto aziendale. Certamente le imprese, soprattutto quelle più strutturate, sono più avanti rispetto alla scuola italiana nell’affrontare e nel gestire il tema del merito e della valutazione della prestazione, anche se mi pare che ci sia ancora tanta strada da percorrere. Provocatoriamente mi verrebbe da dire che la valutazione più corretta sia del tipo: “quanti pezzi sono stati prodotti in una settimana o in un giorno”. Ma è semplicistico ragionare così. Nella società molecolare è più facile: la valutazione è quella del cliente oppure di chi sta a monte e a valle della filiera.
Il progresso tecnologico e la new economy hanno indubbiamente migliorato la vita umana, anche se non quella di tutti: pensiamo, ad esempio, alla cura delle malattie, alla diffusione delle informazioni, alla mobilità delle persone. Recentemente più voci autorevoli sostengono che alcune multinazionali americane, tra le quali Amazon, Google, Apple e Facebook, stiano promuovendo una specie di darwinismo estremo. Come pensa si possa evitare di divenire “uomini-robot”? Quali scenari ci possiamo attendere? Ha ragione Giovanni Sartori quando sostiene “Più pensiero e meno immagini?”
Un’interpretazione collettiva ritiene che la tecnologia non sostituisca l’uomo ma libera del tempo: la maggior parte degli italiani vede infatti lo sviluppo della tecnologia come sviluppo della propria libertà in termini di spazio e di tempo. Personalmente non sono preoccupato se arriva troppa tecnologia: datemi anche migliaia di computer ma non fatemi vedere persone, giovani soprattutto, travolti da una specie di “fatuità continuativa”. Talora ho nostalgia del tifoso della curva Nord che fa la coda, si compera il biglietto, si arrabbia, litiga, urla e fa il tifo. Uno dei problemi del futuro sarà l’inerzia del tempo libero, di un tempo cioè sempre meno ricco di significati. In sintesi quello che mi fa paura non è il “troppo robot” ma il troppo vuoto psicologico del tempo libero.
Secondo Lei quali saranno le caratteristiche del manager 2020 e come dovrebbe essere strutturato il suo percorso formativo? Come si articolerà il rapporto tra vita personale e vita lavorativa? Il manager avrà o meno radici, e se sì, quali?
Il fatto vero è che in azienda è finito il tempo (anche non ce ne se rende del tutto conto) in cui il manager ha dei compiti da esplicare (ad esempio gli acquisti) ed è arrivata una cosa particolare immateriale ed ambigua che è l’esigenza di avere una leadership, leadership naturalmente di sistema (umana sugli uomini, tecnologica sulle tecnologie, organizzativa su gli assetti organizzativi). Per troppo tempo le scuole di management hanno lavorato sul concetto di compito. Oggi in azienda i valori non sono l’osservanza del compito ma la formazione di una leadership e di una relazionalità interna (basata sull’autorevolezza e non sul comando) ed esterna (basata sulle giuste frequentazioni). Sarà banale ma si deve passare dalla logica del compito definito all’interno di un assetto organizzativo ad una logica più articolata: la figura del manager soffre oggi perché troppo semplice e priva del senso del primato del processo. Papa Francesco, quando era cardinale a Buenos Aires, era solito dire due frasi. La prima: “Vale più la realtà che qualsiasi altro pensiero; le opinioni dividono, la realtà è”. La seconda: “E’ importante il primato dei processi sui problemi e sulle decisioni”. Non a caso il Sinodo dei Vescovi, conclusosi il 24 ottobre 2015, ha elaborato un faticoso e complesso processo, affrontando spinosi e concreti problemi: un Sinodo che dovrà continuare a procedere nel tempo e non fermarsi a dichiarazioni conclusive. Ho l’impressione che la formazione di un manager, più legata alla leadership (senza cioè una reale e precisa collocazione o “etichetta”) che non al compito, debba essere in prospettiva allineata all’aumento della cultura di processo.
Vorremmo concludere riportando due frasi. La prima così recita: “Chiunque desidera una vita tranquilla ha fatto male a nascere nel ventesimo secolo”. Si tratta di una citazione attribuita, anche se con qualche dubbio, a Lev Trockij e riportata nel libro “La libertà” di Isaia Berlin. La seconda frase così dice: “La risposta (ebraica) al problema della civiltà, io credo, è di non fuggire dal regno dello spazio e di lavorare con le cose dello spazio, ma essere innamorati dell’eternità”. Sono le parole con cui Abraham Joshua Heschel, uno dei massimi pensatori dell’ebraismo contemporaneo, conclude il suo libro “Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno”. Che riflessioni suscitano in Lei queste affermazioni? Stiamo forse andando … fuori tema?
Seguo lo stimolo delle riflessioni suggerite e ne aggiungo una. C’è una bellissima e poco conosciuta opera del poeta Mario Luzi (Fiore nostro fiorisci ancora), dedicata al settimo centenario della costruzione di Santa Maria del Fiore a Firenze, in cui il poeta dà voce anche alla cattedrale stessa che, ripercorrendo la propria storia, dà corpo a un’affascinante ed originale “cantata sacra”. Prima però intervengono due semplici operai: le loro frasi esprimono dubbi, fatica ma anche l’orgoglio di essere chiamati ad un’opera più grande di loro (“… però io sono parte di questa fabbrica che cresce; questo mi basta. Non soltanto mi convince. La città edifica lei stessa la sua chiesa, si alza verso il cielo e usa la nostra fatica…”). Il progetto ardito di Filippo Brunelleschi può funzionare solo con la collaborazione di tutti e il ruolo del singolo individuo – il muratore – deve essere considerato all’interno di un disegno più vasto: la solidità sacra del lavoro collettivo. La nostra dimensione esistenziale in fondo è questa: siamo dei muratori. Agli inizi del mio lavoro io stesso allineavo “mattoni” (un lavoro di ricerca qui, un altro là) e mi dicevo che qualcun altro (un architetto o un ingegnere) avrebbe costruito un grande edificio: io da solo non so farlo. E’ fondamentale la consapevolezza di essere parte di un puzzle ben più grande di noi.
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